
FIRENZE. Conosce perfettamente il teatro, Valerio Binasco, per non parlare della Commedia; dell’Arte in particolar modo, tanto da provare e riuscire a trasformarla in quella italiana, che ci appartiene così tanto chimicamente e culturalmente, prima che geograficamente. E poi, i suoi polli, soprattutto. Per questo ad Arlecchino servitore di due padroni, monumentale opera goldoniana alla Pergola di Firenze fino a domenica 26 gennaio, occorreva un battitore libero poco sgargiante e ancor meno cromatizzato; grigio, oseremmo dire, tragicomico e pretesto, ma non fulcro, dell’intera messinscena. Allora, eccolo il soggetto che sposa esemplarmente la causa: Natalino Balasso, un disperato doppiogiochista, per necessità, non per virtù biochimica, che non saltella sinuosamente sul palco, ma si muove goffamente, che non ha maschere, ma solo la sua faccia, che è molto di più e che non attira a sé la Commedia, ma la ripartisce, in parti uguali, con tutti i comprimari. Che sono giovani, bravi, simpatici e armonici, questi ultimi. Certo, ci vuole una vecchia volpe, a coordinare la scena;
ci vuole un Pantalone padre/padrone che esasperi la sua e la fragilità umana e sociale, esasperandola, ridicolizzandola, per poi farla naufragare e risorgere dietro un doppio, triplo lieto fine che rende giustizia ai deboli, agli ultimi, alla speranza. E chi meglio del come sempre e come al solito monumentale Michele Di Mauro per incarnare il ruolo di improvvisato regista in campo, abile suggeritore di giochi a elastico con la figlia (Elena Gigliotti), con il resuscitato pretendente a ricoprire il ruolo di genero che prima della fine sveste il completo grigio maschile e rivela la sua reale sessualità (Elisabetta Mazzullo) e il suo vero amore, Florindo (Gianmaria Martini); e poi la serva (Carolina Leporatti) che si commuove sempre e che aspetta un principe azzurro che si degni di dichiararsi; l’isterico, fumino e fumoso genero promesso ma disarcionato a dichiarazioni già fatte, buono e puro come il pane fatto in casa nel forno a legna (Denis Fasolo), suo padre (Fabrizio Contri) che si finge irremovibile, ma che prega, in laico silenzio, che tutto torni al proprio posto e poi Brighella e il servitore (Ivan Zerbinati e Lucio De Francesco), un’ottima mistura di slang e comiche televisive? Nessuno serve all’altro, tutti alla Commedia. Che dimentica, ma non per lapsus, il gioco settecentesco con il quale si propose e venne glorificata per riproporsi, lungo le saline della pianura padana, posti cari e noti a molti dei protagonisti, all’Italia dei giorni nostri, seppur leggermente datati, del secondo dopoguerra, con qualche arricchito che teme di essere risucchiato nel turbine della povertà e che proprio per questo finisce per accettare soprusi e offese mortificanti nel nome di un matrimonio che garantirà, a tutti, un’indolore riparazione e il perseguitare nella falsa opulenza. Su questo Arlecchino, prodotto dal Teatro Stabile di Torino in collaborazione con la Fondazione CRT, c’è soprattutto la mano di Valerio Binasco, l’arma in più, ma perché in sottrazione, di questa rilettura goldoniana, che esalta, nel suo più nudo e crudo realismo, il keatonismo di un tenero, senza mai diventar patetico, doppio servitore, che trova anche il tempo, durante i suoi innocenti andirivieni anagrafici, di innamorarsi e dichiararsi, in un divertente siparietto caro al cinema muto, che si ripresenta, frenetico, nelle scorribande di camerieri e servitori con due pranzi meticolosamente e maldestramente preparati e serviti, con piccoli omaggi al surrealismo, al teatro d’autore e alle licenze più poetiche e stravaganti in auge. Il ritmo incalzante, divertito e divertente, della rappresentazione fornisce apprezzabili spunti di riflessione umane e sociali, restando magicamente sospeso tra le smorfie di stupore e sbigottimento, urla isteriche, finte minacce di vendetta e un’inesorabile caducità esistenziale, che si sorregge, forse per l’eternità, aggrappandosi, pateticamente, a fragili e fatiscenti appigli.
