PISTOIA. L’augurio è che, quanto prima, la Civiltà, la Società, la Storia, la Cultura tutta e anche il Teatro, naturalmente, di certe rappresentazioni non ne abbiano più alcun bisogno. E non perché Mine vaganti, che Ferzan Ozpetek ha traslato dal grande schermo al Teatro (il Manzoni di Pistoia, nell’occasione, con repliche fino a domenica 26 gennaio), prodotto e coprodotto dal Nuovo Teatro di Marco Balsamo e dalla Fondazione Teatro della Toscana, non sia un lavoro di preziosa e gradevolissima portata. Anzi. Spettacolo che scivola con estremo piacere fino alla fine, della quale sappiamo tutto tutti, visto e considerato che dieci anni fa, al cinema, fece, giustamente, incetta di premi e riconoscimenti, grazie anche a un cast meravigliosamente assortito, fino al punto che in più di una circostanza, ieri sera, si è avuta l’impressione di vedere, sul palco, Ilaria Occhini e Ennio Fantastichini, madre e figlio, perfettamente interpretati da Caterina Vertova e Francesco Pannofino, bravi e perfettamente sintonizzati con il resto della spumeggiante compagnia, che vede Paola Minaccioni nel ruolo della signora Cantone, Arturo Muselli e Giorgio Marchesi in quelli di Tommaso e Antonio, i figli omosessuali, con Mimma Lovoi che è la cameriera Teresa, Sarah Falanga la zia Luciana, Francesco Maggi e Eduardo Purgatori che sono Andrea e Davide, gli amici romani omosessualissimi di Tommaso, Luca Pantini, che è Marco, il suo compagno omosessuale con deontologico ritegno e Roberta Astuti, la giovane nuova socia della Ditta Cantone.

Ma perché dal nostro punto di vista, che è eterosessuale, ma senza orgoglio alcuno, siamo inderogabilmente convinti che non ci sia più tempo, né scusa alcuna, perché i pregiudizi trovino ancora terreno fertile sul quale pontificare classifiche, settori, isole, tali da suddividere la società tra quelli che sono attratti dall’altro sesso e quelli, invece, che dell’altro sesso non ne vogliono, eroticamente, sapere nulla. La risposta, lontana, effimera, apparentemente discosta e disinteressata, la offre nonna Caterina Vertova, quando confida, dopo una vita trascorsa nella più sordida ipocrisia e ormai prossima al congedo, il suo sconfinato amore per il cognato, al quale la Ditta Cantone deve commercialmente molto, se non tutto. La differenza l’ha fatta, la fa e la farà sempre l’Amore, che incorpora il Rispetto, la Tolleranza, la Stima, la Fiducia, il Desiderio, elementi che non hanno genere, ma idee, che nascono nel sistema nervoso passando direttamente al cuore, per poi diventare merce favolosa, divertente e indispensabile agli organi genitali, terminali di un processo che non può fare mai a meno dei suoi indispensabili naturali mittenti. L'amore non è una composizione chimica, elettrica; non servono una presa e una spina per far luce nella vita di ognuno di noi. Ci auguriamo, insomma, con urgenza irrimandabile, che nessun figlio debba non sapere come fare per comunicare ai propri genitori la propria omosessualità, cosa invece che lacera, tragicomicamente, la famiglia Cantone, con il papà ossessionato fino al malore dai ricchioni e la mamma che si colpevolizza per non aver scorto, nell’allevare i propri figli, le loro tendenze malate. La commedia, che dispensa applausi a scena aperta, fragorose risate che impongono alla compagnia provvide interruzioni di copione per non coprire la premessa della battuta successiva, esaspera, con ritmica simpatia e afflato attoriale, tutta quella serie di luoghi comuni dei quali sono ancora allegramente farcite non solo le barzellette, ma anche, e in questo caso tristemente, le coordinate umane che regolano i rapporti sociali. Ci auguriamo insomma che Mine vaganti sia l’ultimo appello costretto a vestirsi da spettacolo per denunciare, tra ghigni e risate, la commedia umana, che è la vera tragedia che ci portiamo dietro senza più alcuna giustificazione e che ci costringe a rimanere eternamente bambini: e non giulivi, ma sciocchi.

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