
FIRENZE. L’immagine che un po’ tutti ci portiamo dietro di Winston Churchill è quella che lo raffigura, su ogni libro di Storia, imponente e austero, con il suo inseparabile sigaro tra le labbra, discernere di sangue e sudore con i suoi colleghi, gente del calibro di Stalin e Roosevelt, tanto per intenderci. La Storia lo ha già battezzato ed eternizzato come uno dei più lucidi statisti della civiltà, uno di quelli che, da solo, riuscì in qualche modo ad arginare il fenomeno nazista e circoscriverlo, salvo demenziali e indecodificabili rigurgiti che sembra vogliano riesumarlo, alla sola Germania. Giuseppe Battiston, vistosamente alleggeritosi, ma senza perdere la sua naturale imponenza, ne offre una visualizzazione che non si allinea all’inavvicinabile austerità dell’uomo della democrazia: qui, sul palco del Teatro La Pergola di Firenze (dove resterà fino a domenica 2 febbraio), grazie alla produzione Nuovo Teatro di Marco Balsamo, la regista Paola Rota, che ha spulciato il testo di Carlo Giulio Gabardini, Churchill, il vizio della democrazia, regala, seppur in molto molto scarno, inglese, è proprio il caso di dire, un uomo alle soglie della morte, alle prese con i suoi obiettivi e giustificati deliri di onnipotenza,
un Winston vs Churchill che racconta di un uomo orgoglioso e nostalgico della sua immanenza e che riesce a rivivere i fasti e le tragedie della sua lungimiranza politica, sociale, storica, grazie a un uso smodato di anfetamina, condita da alcool e sigari, puerilmente nascosti all’interno del bastone con il quale, oltre che scandire il tragico contatto dei bollettini di Radio Londra, si sorregge e incute ulteriore timore alla propria infermiera, Lucienne Perreca, assodata dalla moglie affinché si prenda cura di lui, in tutti i suoi eccessi. Il risultato, teatrale, non certo storico, è di notevole rilievo: Giuseppe Battiston inanella ottanta minuti di grande recitazione, occupando, da solo, l’intero palco del teatro, arricchito solo e soltanto da una stanza, disposta concava, come se si trattasse di uno spicchio di mondo, quello che sta sopra tutto il resto, naturalmente, nella quale trovano posto l'immancabile vestaglia rossa, una poltrona che sa di trono, un piccolo mappamondo che nasconde al suo interno le cibarie alcoliche e che si mimetizza, cromaticamente, con il terriccio posto a pavimento, un vassoio trasportabile per gli alcolici che si possono vedere e una radio, che diventa, all'occorrenza, un'umile sedia per la giovane, povera e ignara infermiera e che emette suoni melodici nei brevi ma significativi intermezzi musicali, fino al riff punk, proposto a decibel smisurati quando lo statista lascia la scena e entra tra le pieghe del fondale che raffigura un lupo al massimo della sua proverbiale famelicità. Deambula con difficoltà, con snervante lentezza; respira affannosamente, facendo mancare il fiato a tutti gli spettatori presenti in sala e si confessa, arlecchinamente, burlando la storia e i suoi poveri artefici; i milioni di uomini caduti sotto il peso delle guerre. Racconta e ricorda la follia di Hitler, la secolare e immarciscibile castroneria italiana, che prende sul serio il gioco e gioca con le cose serie e non si riesce a dar pace per la tragedia di Gallipoli e quell’inutile mattanza fatta soffriere ai suoi soldati nei Dardanelli. Il risultato complessivo della rappresentazione va oltre la sufficienza, ma solo perché è una semplice e scolastica equazione matematica; vicino alla perfezione la prova dell’ingombrante mattatore e della sua timida assistente sanitaria, decisamente modesto il flusso emotivo scaturito, per non parlare della sua impalpabile necessità teatrale. Con un 9 all’orale e un 4 allo scritto, non si può certo rimandare a settembre, ma non sono questi gli studenti che danno lustro e fama al Liceo.
