
PRATO. Senza conoscerli, si è autorizzati a pensare che la coppia Antonio Rezza e Flavia Mastrella sia un sodalizio di ultima cerchia urbana partorito, nato e diventato adulto all’interno di una casa di cura, subito dopo l’abolizione dei manicomi. La stessa impressione, del resto, è stata avvertita negli anni ’70, quando alla radio imperversava Alto gradimento, con la coppia Arbore/Boncompagni che poteva avvalersi di uno stuolo di magnifici dilettanti capitanati dal duo Marenco/Bracardi. La storia dei nobili disallineati della controinformazione che tanto bene fa ai regimi che così possono pavoneggiare la loro democrazia, non finisce certo qui; passa alla televisione, poi al cinema, per poi tornare ancora sul piccolo schermo e approdare in teatro. Ma la blasfemia dislessica, i raptus deontologici, la ginnica claudicante e una ratio altamente psicotica fanno di Antonio Rezza e Flavia Mastrella un connubio senza precedenti (eccezion fatta che per Corrado Guzzanti e Ciprì e Maresco, altri pericolosissimi portatori di follia) e probabilmente senza futuro, soprattutto in considerazione del fatto che le urla distoniche, non contemplate dal dolore e dalla gioia,
così come dall’arte e dal teatro, saranno presto bandite da qualsiasi circuito e messe in un angolo, per venir spolverate solo in caso di studi e approfondimenti sulle devianze umane, che generano mostri, sì, ma piccolissimi, come l’esperimento 626 (Lilo e Stich docet). 7-14-21-28, il sacrilegio proposto al Fabbricone di Prato giovedì e venerdì sera e che precede la doppia replica del secondo atto, Anelante, sullo stesso palcoscenico, oggi, sabato 1 febbraio, alle 19,30 e domani, domenica 2 febbraio, alle 16,30, a sua volta preceduta dall’incontro che si avrà oggi, sabato 1 febbraio, alle 16,30, alla Biblioteca Lazzerini, sempre a Prato, con i due saltimbanchi, è tutto ciò che a Teatro chiunque degli addetti onorari al lavoro vi sconsigli di fare: anarchia scenica allo stato puro, urla sconsiderate, abbattimento di ogni regola semantica, morale, temporale, illogiche e innaturali contrazioni nervose e nevrotiche, una macedonia di errori che trascinano il teatro verso la filmografia ulteriormemnte appesantiti dall’aggravante della piena e lucida, per quel che si può, consapevolezza. Si inizia su un altalena, dove il piccolo Antonio Rezza dondola e gongola felice, a dorso nudo, con pantaloni rossi di una tuta tagliati all’altezza del ginocchio e un paio di stivali, rossi, alti fino al piatto tibiale. La faccia è un’apoteosi di accorgimenti chimici, fantascientifici; la lingua, quella di un romano adottato che ha conseguito la licenza media inferiore a Novara e quella superiore in Mozambico; i contenuti, così politicamente scorretti che si lambisce, con sistematica frequenza, la denuncia. Accanto a questo padre snaturato, separato dalla moglie, che vede il figlio, così come stabilito dal Tribunale, solo il sabato, condizione questa che lo incattivisce particolarmente fino a trasformarlo in un dizionario di indecenze penali, che si è rifatto una famiglia che capisce meno della precedente, che si trasforma in sposo/sposa prima e in una moglie/madre dopo, che sforna pargoli con più uomini e ne conserva una memoria approssimativamente numerica, a gioco di campana, dopo essere stato il padrone di una fabbrichetta che produce felicità e alienazione, Ivan Bellavista, l’infermiere del dottor Jekyll che sogna di diventare, al fianco di un’altra compagnia, forse, mister Hide. I due, cacciatori e cerbiatti, che finiranno per rincorrersi nudi attorno ai ferri del mestiere disposti al centro del palco, dopo aver snoccilato tutto il rosario delle cose che non si possono dire, sono stati disegnati dalla mente diabolica della compagnia, quella di Flavia Mastrella, l’anello mancante dell’amore tossico, che genera quel Teatro involontario detestato e aborrito dall’establishment e che il pubblico addomesticato non capisce e non vuol capire.
