di Stefania Sinisi

LASTRA A SIGNA (FI). Proprio un anno fa, Mario Perrotta fu una sorprendente illuminazione, proprio in questo stesso teatro, il Teatro delle Arti, sul palco nero, obliquo, con tre statue di ferro alle spalle. Mostrò, con una semplicità spiazzante - citando un altro aspetto fondamentale del teatro: il segreto della luce, che sta nei bui che riesce a creare - portando in scena Nel nome del padre, tre padri appunto, ma anche tre figli e tre madri, illuminati nella penombra; tre famiglie comuni dove ognuno si contrappone a se stesso a specchio, svelandosi a poco a poco nella propria identità, riflettendo sensibilmente le nostre fragilità, di padri, madri, figli. Figli estranei e indecifrabili, apparentemente assenti che compaiono energicamente solo grazie a un gioco sottilissimo fatto di parole, di concetti, invisibili fisicamente, ma potentemente presenti e problematicamente risolutori, ignari guaritori di drammi irrisolti e nascosti, vissuti prima da figli e poi da padri.
Tutto questo con un lavoro esemplare centrato tutto su se stesso e sulla sua magnifica interpretazione. La trilogia monologo In nome del padre, della madre, dei figli nasce da un intenso confronto con lo psicanalista Massimo Recalcati, che alle relazioni familiari ha dedicato gran parte del suo lavoro, mostrando le debolezze dell’uomo/padre moderno. Mario Perrotta esalta tra l’altro una grande umanità e nella sua semplicità mette in scena tutta l’attualità di un vissuto sociale attuale e in fervore continuo. Nasce così il penultimo monologo facente parte della trilogia, che oggi si dedica Alla madre. Una madre che l’autore interpreta oggi con l’ausilio di troppi giochi scenici, disperdendo tutte le belle capacità e le potenti tracce di cui dispone, una madre che viene drammaticamente spogliata della sua dignità, una madre a cui il regista/protagonista, qui fa sgretolare tutte le certezze epiche su se stessa per approdare a un visione più complessa e problematica di se’ e del mondo, scoprendo il confronto come strumento sistematico di creazione, anche se questo confronto la porterà a farsi tristemente sbeffeggiare su dissacranti scambi di opinioni perfino su Whatsapp. Una madre che Perrotta descrive con una tristezza imponente e una ferocia deprimente, affrontandola con uno sguardo troppo severo: la rende mostruosa, egoista, fagocitaria e accentratrice. Una statica mongolfiera bianca incapace di svolgere il suo ruolo. Le pone l’accusa più pesante che una donna, una madre, possa sentirsi fare: non essere capace, lei stessa, di staccarsi dal cordone ombelicale che la lega a sua madre e infine incapace di ritagliarsi un ruolo nella società; di aver rinunciato alla sua femminilità ancor prima di aver accettato la maternità e di rimanere schiava di quel tipico legame della cultura italiana che si propaga tra madre/ figlia/nonna in una sorta di quadro Le tre età, di Gustav Klimt; la descrive soggiogata in una sorta di prigione matriarcale. Gode nel togliere questa immunità alle Madri Madonne Italiane. Vuole provocarci per farci riflettere ancora una volta sulle nostre fragilità e attraverso queste metamorfosi vuole scatenare il nostro disgusto. Le madri rimangono, comunque, il simbolo di un’icona che sa essere sempre più ricca, più variopinta che mai, nonostante le forti accuse lanciate durante la rappresentazione, poiché, come dice invece il suo grande amico Massimo Recalcati nel libro Le mani delle madri, alla fine nessuno di noi si autogenera; la vita viene dalla vita, la funzione materna è la figura del soccorritore (Sigmund Freud), la vita cadrebbe nel vuoto se non ci fosse questa figura che la coglie.
