
PRATO. Non si è voluto dimenticare nulla, ma proprio nulla, Luca De Fusco, in questo sontuoso libero riadattamento de La tempesta, al Metastasio di Prato fino a domenica prossima, 9 febbraio, ultima opera, quasi testamentaria, di William Shakespeare. A cominciare dal direttore d’orchestra, Prospero (Eros Pagni), volutamente sprovvisto di bacchetta, principe disarcionato dal suo regno che ha preferito l’isola che non c’è - e che non ci sarà mai, probabilmente - per metabolizzare la propria vendetta, che sarà quanto di più atroce si possa architettare: il perdono. Ma non è solo il vecchio protagonista a meravigliare; l’onirismo dell’intera rappresentazione, un crack particolarmente efficace, quello allestito da Marta Crisolini Malatesta, spolvera tutta la scienza e la conoscenza del regista, che in questa full immersion decide di restare in apnea con le cose che ha più care e che trasporta nei desideri del monumentale Prospero, che oltre a sdoppiarsi nelle sue creazioni, Ariel e Calibano (Gaia Aprea: è parsa un ventriloquo, per le maschere che le hanno cancellato le labbra), cerca a sua volta di consegnare, in eredità, alla figlia Miranda (Silvia Biancalana), alfabetizzata, in quel dorato e immaginifico domicilio coatto dell’isola dell’esilio, alle pratiche esistenziali, spesso sotto i consigli dittatoriali - sconfinando in quello che è stato uno dei più felici e indimenticabili doppiaggi di Eros Pagni: il sergente maggiore Hartman, in Full Metal Jacket - dell'amorevole, ma crudo, padre/padrone.
L’isola è un emiciclo di tomi, che si trasforma, all’occorrenza, in un puzzle di videoinstallazioni, febbrilmente accatastati in una gigantesca libreria, con alcuni ancora da sistemare e che saranno sedie per le rispettive riflessioni, oltre a un binario mobile sul quale transiteranno, trasportati come in una vetrina di un supermarket, tutti i traditori, che sono senza età e senza tempo, come le proiezioni dei quadri che occupano gli interspazi della biblioteca, agganciati all’opera shakespeariana nel fantastico immaginario collettivo del regista, che ha prodotto la sua Tempesta grazie al Teatro Stabile di Napoli, dal Teatro Nazionale Genova e dalla Fondazione Campania dei Festival. Il riadattamento della scrittura, appesantita da orami cinque secoli trascorsi, è una delle innumerevoli riletture che il testo, onirico per antonomasia, forse, offre a chiunque abbia voglia e capacità di metterci le mani. A nostro avviso, scendendo nei dettagli, anche al di là di ogni ragionevole inesistente imperfezione attoriale, la carne messa a cuocere, nello specifico, abbonda esageratamente e capita spesso, durante lo spettacolo, di doversi inderogabilmente concentrare sulle disquisizioni filosofiche apportate dal regista su un’opera che non ha certo bisogno di ulteriori dettagli per conquistare spanne di credibilità algoritmica. Per nulla irriverente la fatale apparizione giunonica (Alessandra Pacifico Griffini) di una Marilyn Monroe che irrompe sulla scena per dileguarsi subito dopo, così come le comiche conversazioni in napoletano tra Trinculo (Alfonso Postiglione) e Adriano (Francesco Scolaro), senza dimenticare di citare le somme apparizioni dal balcone della villa/biblioteca, mussoliniane, senza nostalgia alcuna e renzoluciane, che accompagnano l’altalena emotiva del linguaggio forbito del padre e quello soporifero delle cantilene popolari, con le quali il popolo cresce e si abitua e con le quali preferisce vivere e convivere tutta la vita, senza dannarsi l’anima. È la volta di Platone, dunque e della sua Re(s)pubblica, con la quale, Shakespeare non ha potuto e voluto non confrontarsi, così come han fatto del resto tutti quelli che se lo sono potuto permettere durante e dopo il suo avvento. Un ineccepibile spettacolo teatrale, ricco fino allo sfarzo di contenuti, richiami, arrocchi, citazioni, stravaganze, licenze, movimentato alla giusta velocità, esemplarmente sintattico, gradevolmente didattico, con un cast variegato, variopinto, eterogeneo, sotto la guida di un vecchio (a 81 anni si può parlare di vecchiaia, giusto?) maestro del palcoscenico. È mancato, forse, ma solo a nostro presuntuoso avviso, un po’ di groove, quello che ti accompagna, ma ti perseguita anche, fino a casa, al rientro, dopo la serata a teatro, prima di andare a letto.
