
PRATO. Fino a quando indossa la tuta anticontagio, o quella che contraddistingue i disinnescatori di mine, Roberto Abbiati è la maschera che accompagna il pubblico del Magnolfi di Prato (in prima assoluta; si replica fino al 23 febbraio) ad accomodarsi lungo le poltroncine disposte a emiciclo intorno al palco. Non è galante; anzi, è particolarmente burbero e nonostante tutto il pubblico conosca la sua storia e quella di chi ha deciso di fargli indossare i panni di Josef K., qualcuno si augura che stia scherzando. Nient’affatto. Del resto, Circo Kafka, produzione bilingue tra Metastasio e Teatro Piemonte Europa, trasfigurazione gutturale, armonica, intuitiva, deduttiva, figurativa, contemporanea, anzi, eterna, di un processo senza storia e senza tempo, che Claudio Morganti (tra il pubblico, ma nella terza e ultima fila), noto sobillatore teatrale, ha deciso di portare in scena, è volutamente tragicomica, senza risposte, seppur sopraffatta di domande, esattamente come Il processo dell’ignaro bancario immacolato, che sentenziò condanna. A prescindere. L’aula del tribunale, però, dove Josef K. non arrivò mai, è in realtà la sua camera d'albergo, un puzzle di oggetti da mercato dell’antiquariato:
un letto con testata in ferro decorata alla quale è aggrappato un gatto nero con gli occhi iniettati di sangue; un comodino che nasconde una cornetta telefonica collegata a un filo staccato; una sedia in legno impagliata con due zampe segate; un abat-jour sorretta da un braccio semovente; un separé da doccia che scorre lungo una gruccia; un contrabbasso con una sola corda; una cornamusa; una ruota di una bicicletta sui cui raggi è attaccato un pezzetto di cartone che scandisce la frenesia del tempo e i suoi cigolii e un manichino, con la testa a forma di teschio, l'epilogo (in)naturale di una persecuzione immotivata, quello che subirà la coltellata fatale. Su un altro manichino, posto davanti al talamo, giammai nunziale e molto funereo, quello della stessa stanza d’albergo dove Josef K. viene informato della sua colpevolezza, ma senza orivarlo subdolamente della sua quotidianeità, l’abito di una guardia, che Roberto Abbiati indossa e smette per far sì che possa abbigliarsi anche con la toga del magistrato e poi anche con il cappotto dell’imputato, nascosti, questi ultimi, dietro una balaustra dalla quale si può anche accedere a un pulpito dittatoriale. Imputato di un reato non ascrittogli che darà luogo a un processo che non si consumerà, ma che si concluderà comunque, seppur incompiuto come l’opera del suo autore, con una condanna a morte. Il ginepraio indiziario non svelato è magistralmente trascritto agli atti dal mimoAbbiati, che è anche, e soprattutto e soltanto, un dizionario di suoni, richiami per cacciatori, versi schizofrenici, ululati, che sono l’incarnazione di una mediazione linguistica che non conosce idioma, ma che subisce, inesorabilmente, un processo, al quale, tutti, con il trascorrere del tempo, finiranno per abituarsi, diventando spettatori inermi e inerti di un sadico e tragico gioco al massacro. Claudio Morganti, felice e attento dissacratore, per questa volata transoceanica in giro per il mondo, non poteva che affidarsi alla smorfia di Roberto Abbiati, un mix tra il sempiterno autoritratto di Vincent Van Gogh e Giovanni Storti, consegnandogli le chiavi di un eterno sopruso affinché rimanesse, custodito, nella teca nella quale ha visto la luce. E lì resta. Anzi. La delucidazione del regista, circa la farsa subita da Josef K., dopo la messinscena di questo Circo Kafka, dove non possono trovare casa e ristoro che stranissimi personaggi fauneschi, accentua ed esaspera ulteriormente la lirica, magistrale, di un’opera che non a caso è e doveva restare incompiuta e tramandata ai posteri solo grazie all’amicizia coincidenziale che l’autore ebbe con Max Brod, che salvò il manoscritto dalle fiamme, come Franz Kafka desiderava e aveva testamentato. Un interrogativo rimasto incompiuto e senza giustizia e al quale Morganti/Abbiati hanno soltanto aggiunto, un secolo dopo, delicate sfumature teatrali, che non si sono affidate alla forza delle parole, ma a quella, indecifrabile e universale, della suggestione, cento anni dopo ancora guida sicura di processi celebrati ovunque, meno che nei tribunali.
