di Claudia Cappellini

PISTOIA. Una pozza d’acqua che ristagna, orrenda pinzillacchera spaurita, mi accoglie sulla porta consumata di una stanza in affitto e seminterrata. Mi metto anche a far le rime, penso tra me. Apro la porta, superando con la scarpa la pozzanghera, e accendo la luce a destra del mio spazio. È un sotterraneo, non c’è che dire. Basso il soffitto, alte le fessure finestrine, buio o, come diceva il cartello in agenzia, parzialmente illuminato. È un seminterrato. La paura che mi assale passa alla svelta. Conto i soldi, enumero i bisogni nella testa, faccio un giro per la stanza ancora parzialmente illuminata e decido di restare. Porto con me poche cose. No, la valigia sul letto no. La metto e la apro su una sedia. Prendo gli oggetti uno a uno. Un sacchetto con svariate conchiglie ripulite. Un pezzo di boa con corda attaccata. Sugheri. Anch’essi svariati. Una salvagente sgonfiato e arancione. Una cerata, tela impermeabile, contro l’umidità. Bottoni da camicia. Una camicia. Un paio di scarpe nuove. Fine del bagaglio. Li ho messi, uno a uno mentre li prendevo, su un mobile basso che li ha accolti con ampiezza di superficie. Mi tolgo le scarpe e mi distendo sul letto davanti al mobile basso. Ripenso a ieri, a ieri l’altro, ai giorni passati, ai mesi, agli anni passati. Ripenso alla barca che oggi nessuno bagnerà, che nessuno bagnerà domani.

Piano piano il legno seccherà, si produrranno crepe e poi spacchi profondi. La vernice a squame, gli strati di vernice a pezzi sulla sabbia nella parte alta della spiaggia dove l’ho lasciata coperta solo da un telo di canapa marrone. Ripenso al suo nome l’Aurora e lo vedo crepato e stinto. Una fitta leggera leggera al cuore, un dolore. L’Aurora mi pare un sole, ora, a bruciare i miei occhi. Ma sono solo lacrime. Ho la pelle riarsa, bruciata, anch’essa crepata; queste lacrime mi fanno bene, mi dissetano. Potessero esse arrivare dietro la nuca e bagnare lì, in quel punto, la pelle assetata. Nessun cappello ha potuto riparare la nuca e salvarla. La tocco e la sento come estranea, un pezzo di corpo indurito, incuoito dal sole. Ancora sulla mia destra trovo un interruttore e spengo la luce. È un clic che mi riaccende il pensiero. Nelle reti restavano alghe miste a conchiglie, tolto il pesce. Sempre meno. Alla mia età (che tenerezza è questa, dire alla mia età) contare il pesce che rimane impigliato nella rete è quasi un vezzo. Una spassosa perdita di tempo per chi ormai butta a mare reti senza attese. Liberare le valve dalle matasse delle alghe e ripulirle. Quel sacchettino ora le conserva e le ripara. La superficie candida del mare, una spuma, una marea, un abisso inconsistente sotto l’Aurora. E poi ancora una tempesta, un viola aranciato d’autunno, e non quel blu ostinato che tutti vogliono cercare. Non è blu il mare, non lo è mai stato. È blu quel che sembra, quel che è, è viola. E io conosco l’essenza delle cose. Di nuovo clic e accendo la luce. Tutta questa acqua mi ha messo sete. L’angolo cottura è fornito di bicchieri. Apro il rubinetto e l’acqua scorre marroncina, effetto delle tubature incrostate, arrugginite. Piano piano si schiarisce e bevo. È un’acqua tiepida e insapore. L’avrei aspettata ferrosa o salata. E invece no. È tiepida e indolore. Il dolore, il sapore, il terrore, l’amore, pensa a quante rime in –ore. Cerco rime da quando avevo sette anni e ora a settanta non ho smesso. Mi piace il suono della voce che in mezzo al mare sillaba poesie. È dolore sì quello che in gola brucia e non è dovuto all’acqua e non è dovuto al sole. Muto in mezzo al mare non troverò riparo. Non voglio a settanta anni (era tenero davvero dire alla mia età), non voglio spaventare il mare. Questo luogo parzialmente illuminato mi oscura alla mia vita e alla mia storia. Mi nasconde e mi ripara da un vuoto di parole che condanna al silenzio la mia voce. Questo groppo, turbine improvviso di vento, mi ammala le corde vocali. Senza rimedio. Soffio nel salvagente, ereditato da scialuppa clandestina, e cerco approdo. Cerco salvezza. Vorrei sapere come morire. Una cerata mi isola dal freddo. Tappo le orecchie contro le sirene. Alla mia età senza più voce. Alla mia età senza scarpe nuove non è permesso entrare nelle case. Ho i piedi cotti e anche un poco sfatti. Rido di me. Rido del mio male. Un bottone da giocare. Tiro. Tiro alla sorte. Tiro alla vita e tiro anche alla morte.

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