
SAN MINIATO (PI). Un testo di resurrezione, resistenza, resilienza. Pare essere stato scritto alla bisogna per questo virus che sembra si stia esaurendo e la vita, attorno, che rinasce. Invece era soltanto premonitore, perché La vita salva, in scena, in prima assoluta venerdì 17 luglio alla 74esima edizione della Festa del Teatro di San Miniato, con questa quarantena non ha nulla da spartire; con la paura sì, però, per non parlare di speranza, coincidenza, imminenza. A suonarsela, cantarsela e ballarsela, solo lei, Silvia Frasson, l’autrice, prodotta da Tedavi ’98 in collaborazione con Festival Montagne Racconta e la Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato. Ma non è un monologo; è una videochiamata in chat, dove si (ri)trovano persone che fino all’istante precedente pensavano di potersi ignorare: donne in cerca di riscatto; figli che non riescono a trovare la via dell’autosufficienza; bambini spensierati, bambini condannati, spiriti liberi che improvvisamente decidono di affidarsi a qualcuno. Vite sospese, come amache che si dondolano, tanto inesorabilmente quanto inconsapevolmente, tra l’inizio e la fine, la nascita e la morte. Sono i battiti della vita, scanditi con la stessa inesorabile frequenza a qualsiasi latitudine e che, con la stessa inoppugnabilità, conducono alla fine. È quello che succede durante il tragitto che ha senso e ragione di essere vissuto e, perché no, raccontato.
Silvia Frasson li va a cercare uno a uno, nella loro intimità, i suoi eroi asintomatici, fino a scovarli, per poi catapultarli, con la forza erculea di uno scricciolo, nel bel mezzo del palcoscenico. Loro, le anime dannate e salve, sanno che sarà lei a dare forza e voce alle loro storie e allora, in perfetto ordine consequenziale, senza assembramenti, proprio come il pubblico, centimetricamente distanziato in platea, sulle seggioline in plastica disposte dall’organizzazione in un angolo di paradiso laico, San Miniato, che esaspera il rimorso di un paese, il nostro, il più bello del Mondo, irriconoscente di tanta fortuna, aspettano il proprio turno: danno il tempo a chi le ha precedute di allontanarsi per poi entrare, a loro volta, nel corpo della loro giullare. Asciutta, emozionata, con le corde dei muscoli pronte a esplodere e con il diaframma che si sintonizza e adegua al racconto. Breve, ma sufficiente, perché dalla prima all’ultima sillaba si capisce che quello che sta per succedere è quello che è già successo, prima, chissà a chi e che, molto probabilmente, succederà ancora, poi, chissà a chi. Da un momento all'altro, senza preavvisi, senza segnali premonitori. I pochi istanti di buio separano la vita di ognuno da quella degli altri e ogni esistenza ha la propria colonna sonora, quasi tutte british, new age, per ritrovarsi in fondo alla rappresentazione ognuno con le proprie doti, paradossalmente indispensabili, intercambiabili, compatibili. Lo spazio del palco si riduce a un fotogramma, a una cellula molecolare, a un fermo/immagine, a una clessidra piena di granellini di sabbia in entrambe le ampolle: inutile capovolgerla, il tempo non passa, perché il tempo è già passato e spesso, senza rendercene nemmeno conto, non ne abbiamo più per cambiare il corso degli eventi. Non è un inno alla vita, vogliamo augurarci, ma un inno a viverla, con l’intensità che merita, con le sue dovute precauzioni, certo, ma anche con tutti i suoi rischi, che vanno corsi, affrontati, altrimenti… Altrimenti non avrebbe alcun senso raccontarli, come cantava Gabriel Garcia Marquez; altrimenti non succederebbe nulla, altrimenti non succederebbe quello che invece deve accadere e soprattutto perché altrimenti, la rabbia, l’autrice, sarebbe stata costretta a cercare di venderla in chissà quale mercato rionale; così, invece, ha trovato a chi regalarla.
