PONTEDERA (PI). Non glielo abbiamo chiesto, per non essere sfrontati e irriverenti, ma abbiamo fatto male: perché questa meravigliosa e poetica novella sull’amore, la solitudine, la follia, la decrescita, la rivoluzione e su tutto quello che prima o poi dovrà per forze di cose essere rivalutato, Michele Santeramo non se l’è ballata da solo, dopo essersela suonata e cantata? Certo, sarebbe durata mezz’ora abbondante in più, la rappresentazione, la prima in un emiciclo teatrale open dopo questa tragica follia virale, in quello dell’Era, per la precisione, a Pontedera; come minimo, oltretutto, perché le pause, le sue pause, alle quali ci siamo morbosamente affezionati e che sono un carattere adorabilmente distintivo, avrebbero ingigantito la tristezza, e il lento e inesorabile trascorrere delle vicissitudini avrebbero trasformato quel povero scemo in un piccolo, grande inconsapevole eroe. Ma non sarebbe dispiaciuto a nessuno se il racconto, preceduto da un intro musicale jazid di rara gradevolezza e che ci hanno assicurato essere solo una coincidenza del server del teatro, si fosse preso anche altri lembi della notte, tra i presenti, tutti debitamente distanziati, appoggiati su comodissimi cuscinetti in attesa che le seggioline con materiale riciclato prendano il largo industriale, anche perché, se il crooner di Salvatore, anziché Arturo Muselli (se avesse studiato a fondo e lo avesse memorizzato, il testo, si sarebbe dovuto concentrare meno sul leggerlo), fosse stato lui stesso, oltre agli applausi, i presenti avrebbero dovuto impegnare le mani anche per asciugarsi il viso, inevitabilmente irrorato da lacrime indispensabili.

La storia, inventata (?), di Salvatore, lo scemo di un villaggio qualsiasi, è una fiaba senza tempo, che occorre raccontare proprio ora, che il tempo sta per finire. L’inesorabile e invincibile diagnosi sulla demenza del ragazzo sentenziata in tenerissima età, protetta dai nonni materni, che si sostituiscono a un padre assente e a una madre artista, è il binario lungo il quale tutto accade; la vita a braccetto con la morte, temuta ma insostituibile compagnia, scandisce i passaggi della vita di Salvatore, decreta sviluppi, lasciandolo completamente solo a cercare di capire come funzioni e come possa funzionare quel mondo nel quale è capitato, regolato da dettagli ai quali nessuno osa sottrarsi, seppur tutti stentino a decifrarne gli ingranaggi. Sul palco, a ritmare lustri, il sax di Marco Zurzolo, un musicista che, per decifrarne la dote, vi citiamo solo uno dei mostri sacri con i quali ha collaborato: Mike Manieri. La morte dei nonni non può essere in alcun modo risarcita: la casa in affitto torna al suo titolare, che ci piazzerà la figlia, prossima alle nozze; per lo scemo di Salvatore non c’è nemmeno una modesta pensione di invalidità: o meglio, ci sarebbe anche, forse, ma richiede una lunghissima trafila burocratica, costellata di visite mediche e certificati, di cui nessuno ha tempo di occuparsi; Salvatore, allora, per sopravvivere, escogita, ma senza alcuna destrezza, ma solo perché così vogliono tutti quelli che gli stanno intorno, la liretta, un conio facilmente fabbricabile, da chiunque (basta ritagliare dei rettangoli di carta e scriverci sopra il loro valore), che spiazzerà, nel giro di breve, l’economia delle multinazionali e gli affari della criminalità organizzata. Salvatore (Masaniello) è ormai un eroe; la sua candida demenza illumina la gente del villaggio dove vive, che decide di volersi liberare dai compromessi e dagli orpelli che ne sovrastano le esistenze, compresa Fabrizia, la parrucchiera, che salva da uno stupro e di cui si innamora, ma solo come uno scemo può e sa fare: dando tutto, senza chiedere nulla e che decide di abbandonare una sera, quando è convinto che la sua guida, inevitabilmente spericolata perché sprovvisto di patente, ne abbia causato la morte. Salvatore e Fabrizia invece, poco tempo dopo, si ritroveranno: lui è felice di vederla viva; lei, lo ha perdonato, perché ha capito. Alla società delle cambiali, del lavoro, delle banche, degli affitti, dei matrimoni, delle regole, dei compromessi, dei ricatti, questo amore scemo non piace affatto: qualcuno li rapisce e li condanna a morte, chiudendoli in un seminterrato e offrendo loro una tragica possibilità, una pistola con un solo colpo in canna; per uno dei due, l’agonia, sarà più breve e meno straziante. Salvatore e Fabrizia, o Anna e Marco, come cantò Lucio Dalla, qualcuno li ha visti tornare, tenendosi per mano. Davanti alla nostra abitazione c’è una struttura sanitaria che ospita alcuni pazienti che non sono riusciti a salire sul treno o che ne sono stati fatti scendere perché sprovvisti di biglietto; uno di questi è un ragazzo di oltre quarant’anni, un Salvatore qualsiasi. Quando finisce i soldi, veri, per comprarsi le sigarette, ne fabbrica di fasulli, facendo proprio come Salvatore: ritaglia dei rettangoli di carta e ci scrive sopra il loro valore. Il tabaccaio della zona, che lo conosce, ogni tanto, qualche pacchetto se lo fa pagare così. Ma d’estate, quando il suo esercizio è chiuso per ferie, per Salvatore, fumare, è spesso un problema. Stasera, sempre nell’emiciclo del teatro dell’Era, Oltretutto, la seconda storia di vita normale scritta da Michele Santeramo, stavolta affidata a Giulio Scarpati, anch’egli supportato dal sax di Marco Zurzolo.

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