
PISTOIA. Nel bel mezzo della città, con un recinto virtuale a separare la platea dal resto del centro storico. Questo è quello che si può fare di questi tempi e questo è ciò che l’Atp di Pistoia organizza, Spazi aperti, trasportando il teatro (e i concerti) in un posto ad altro deputati. Ma la forza dei personaggi e di chi dà loro voce va ben oltre il latrare di alcuni cani irriverenti o di alcuni bambini che a teatro non vanno e forse non andranno mai, purtroppo. Renata Palminiello, ideatrice e regista, ha accettato la sfida e i suoi Grandi discorsi l’ha allestito lì, in piazza dello spirito santo, in piena zona a traffico limitato. Il palco sono due scranni tribunalizi e due pulpiti oratoriali, disposti asimmetricamente rispetto al pubblico, sui quali si succedono, in un ordine indecifrabile, otto attori, ognuno rappresentante di un personaggio che ha fatto la storia; o che avrebbe dovuto farla: Carolina Cangini, Stefano Donzelli, Marcella Faraci, Massimo Grigò, Sena Lippi, Elena Meoni, Elena Natucci, Mariano Nieddu, snocciolati in ordine alfabetico, nei panni, senza alcuna relazione d’accoppiamento algebrico, di Emmeline Pankhurst, Virginia Woolf, Bianca Bianchi, Piero Calamandrei, Martin Luther King Jr, Harvey Milk, Paolo Borsellino e Iqbal Masih.
Otto storie più o meno famose (molto dipende dal contesto nel quale si è stati allevati, per conoscerne, almeno vagamente, i contenuti) di altrettante icone, più o meno pacifiste e pacifiche, dell’insurrezione a più livelli, pronunciate, tutte, in questo ventesimo secolo che ci siamo lasciati alle spalle con più recriminazioni che ricordi. La scelta degli autori e dei loro contenuti è smaccatamente politica (che condividiamo fin nel midollo); quella degli interpreti fa parte del vasto e nutrito materiale attoriale di cui Renata Palminiello (ormai di casa a Pistoia) dispone; qualcuno si è calato nel proprio personaggio con un trasporto eccessivo, depotenziando la rappresentazione; altri si sono fatti trascinare un po’ altrove dall’inedito contesto, perdendo qualche decibel di fascino. In linea di massima, comunque, lo spettacolo, in scena a partire dalle 18,40, quando anche sullo spicchio di destra della platea il sole a occaso non poteva più abbagliare, è stato di estrema gradevolezza, bel coraggio e probabilmente indispensabile in questi tempi strani, proprio in questi tempi: emancipazione femminile, umana, adolescenziale, razziale, democratica, costituzionale, con un omaggio alla lotta senza quartiere contro le Mafie e al sogno, fatto a occhi aperti, di ogni uomo di colore, di ogni essere umano sottomesso. Ribadiamo quanto già accennato prima: qualche interpretazione ci è sembrata eccessivamente metabolizzata; altre, con un minimo di imperdonabile sufficienza. Degli otto monologhi, ci corre l’obbligo (ci corre da quando abbiamo deciso di fare questo mestiere) di segnalarne uno, a nostro incorruttibile avviso, il più cazzuto, quello dello scricciolo letale, la piccola, piccolissima e maestosa Sena Lippi. Mocassini neri con lacci, pantaloni scuri e maglietta, nera, da basket, con tanto di numero 13, si è mesa sulle spalle tutto il peso dell’apartheid e ha snocciolato, proprio in quel momento, il suo sogno, il nostro sogno, il sogno di ogni uomo e di ogni donna di buona volontà, senza alcun retaggio cristiano, ma con tutta la voglia che questo altro mondo che credevamo possibile, possibile lo diventi quanto prima.
