
FIGLINE (PO). La luna è dall’altra parte, rispetto al palcoscenico ricavato ai piedi della parete di marmo; ma è fioca e non ce la fa a illuminare Valentina Banci, che a pochi chilometri di distanza in linea d’aria rispetto alla prima rappresentazione, quella avvenuta al Giardino di Boboli di Firenze, il 5 giugno 1937, centotredici anni dopo, alle pendici della cava di Figline di Prato, dove solo lei, suo fratello Lorenzo e Giulia Barni avrebbero potuto immaginare un allestimento del genere, decide di riportarla in scena I giganti della montagna, scritta e non ultimata, quasi volesse che fossero gli altri, con idee e palle, a completarla, da uno dei padri del teatro contemporaneo, Luigi Pirandello. Partiamo dall’epilogo, con quell’attacco furioso e lucido rivolto agli impresari, o procediamo con ordine, magnificando la scelta, unica, coraggiosa e sin troppo pertinente, ora che è stata partorita, dei fratelli Banci di allestire lì, dove nessuno aveva mai osato nemmeno pensarla, una rappresentazione teatrale? Iniziamo da Valentina Banci, invece, in grazia di quel dio minore accolto nella villa degli Scalognati, unico posto al mondo che si degna di ospitarla, lei e la sua fatiscente compagnia, ricca di storpi, energumeni e contesse decadute, attesi da questi fantasmi che da secoli aspettano la luce per tornare a vivere.
Il dolore di Luigi Pirandello, anche se fu il figlio Stefano a provare a scriverne l’epilogo memore di quello che il padre gli aveva impartito, è il dolore, lo stesso identico dolore del cattivo ritiro al quale la stratosferica Valentina Banci e tutto il mondo è stato costretto a rifugiarsi e proteggersi; quasi tutti gli altri han portato a spasso il cane, per uscire di casa e dalle regole; lei si è messa a scrivere, a scrivere sopra, è forse più corretto dire, per farsi trovare pronta, e incazzata nera, nel momento in cui i cugini degli impresari di cui sopra avessero deciso essere arrivato il momento di girare le chiavi dei nostri domicili coatti e liberarci. Furiosa, libera, lucida, nitida, sadicamente assorta, ironicamente crudele, Valentina Banci (potremmo anche limitarci a scrivere Valentina, vista l’amicizia che ci lega, ma stasera preferiamo starle qualche gradino sotto e guardarla dal basso verso l’alto: è giusto così, lo merita) si è messa sulle spalle un lavoro enorme, certosino, difficile e faticoso, lasciandosi illuminare da chi, la luce, la porta con sé e con i suoi scritti, il padre Pirandello, per poi chiudere quell’equazione naturale del teatro nel teatro aprendo un’altra porta, un altro varco, dove iniettare di veleno e dignità un teatro che la poesia di cui dovrebbe vivere e alimentarsi ha preferito uccidere e lasciar marcire. Lo ha fatto denunciando se stessa e quel mondo cartapestato che le gravita attorno, sorridendo, mascherandosi, sghignazzando, marionetta senza fili, autoalimentata, entrando e uscendo da un nugolo di personaggi, macchiette, finzioni, scratchando sul proprio diaframma, rovesciando, con l’aiuto degli animali della fattoria di Orwell, i tavoli delle nozze di Cana sugli spettatori, che per andare a vederla hanno dovuto affrontare la proibitiva salita della Cava di Figline. Ma era lì, che questo spettacolo, dopo una quarantena che inizia a farci abituare al peggio, basta che si riparta, era necessario che fosse fatto, dove il teatro, l’arte e la cultura in generale è opportuno che riprendano a scrivere le proprie pagine, maldestramente ma provvidenzialmente interrotte, in quella Villa degli Scalognati, ai piedi di una montagna plumbea, che diventa nera con l’avanzare della notte e chissà per quanto tempo ancora sopporterà l’erosione naturale e dell’uomo, lontano da tutte le mappature toponomastiche, salottiere, borghesi, accomodanti e convalescenti e ancor più e soprattutto dalle agende dei teatri stabili. Stavolta, Valentina (Banci), invece che bussare e aspettare qualche cent di elemosina, ha preferito che il maggiordomo di turno avvertisse il padrone del suo arrivo e una volta sull’uscio, invece di chiedergli, deforme e penosa, una parte, ha deciso di sferrargli un pugno nel viso.
