
PISTOIA. La vecchia madre è morta. Uno dei tre figli, a denti stretti, ha anche detto finalmente: una delle due sorella si è irretita, a quelle ingiuriose e irriconoscenti parole; l’altra, ha pianto. Ed è proprio lei, quella di mezzo, la figlia, zitella, che è rimasta nella casa di campagna in compagnia della madre vecchia, inferma e con la testa ormai tra le nuvole, altrove, che ci guida nel labirinto della casa, un attimo prima che la ditta dei traslochi, ora che il rudere è stato venduto, tra polvere e memoria, porti nel magazzino quellaserie indecifrata di cianfrusaglie, piatti rotti e fotografie, in bianco e nero. Gabriella Salvaterra, figlia (il)legittima di Enrique Vargas, ci prende per mano, nei meandri del Funaro di Pistoia, fino a domenica prossima, 27 settembre, e ci conduce tra i meandri di Dopo, che è la visita della villa, ormai fatiscente, dopo che l’immobile è stato ceduto a una famiglia inglese innamorata del Chianti e che arriverà in Toscana il prossimo fine settimana, con uno dei voli Charter messi in vendita dalla Ryan Air. Due sue amiche, Loredana D’Agruma ed Elena Ferretti, accompagneranno i visitatori nel percorso guidato, tra luci soffuse, anzi, febbricitanti, fino all’uscita, durante il quale potranno ammirare, stanza per stanza, circa un secolo di storia, emozioni, passioni, fratture, dolori.
Gabriella Salvaterra aspetterà gli ospiti nella sala da pranzo, inebetita, come se la morte della vecchia madre l’avesse liberata da un peso e sottrattole l’unica cosa cara che fosse riuscita a coltivare. Non abbiamo, di proposito, letto le note dello spettacolo, perché a un certo momento, dopo esserci eccitati guardando negli occhi la figlia della vecchia e defunta titolare del rudere, abbiamo iniziato a piangere, quando le sue due amiche, nella stanza/camera oscura, dal liquido dei ricordi ci hanno mostrato alcune fotografie di quella stirpe, irrimediabilmente sbriciolatasi, nel tempo, insieme ai piatti del corredo, gli ammennicoli, i profumi, le macchinine, che appartennero, decenni prima, ai tre figli. Del padre, nessuna traccia, come degli uomini in generale, del resto, se non per essere stato lungimirante, settant’anni prima, ad acquistare quella villa dismessa, in campagna, accanto al granaio, non distante dalla superstrada, che ne arricchì prestigio e valore, se solo fosse stata venduta prima, molto tempo prima, prima degli avventi di questo ventunesimo secolo, tra internet e pandemie. Si entra tre alla volta, nel corridoio dell’immobile; la luce, fioca, è quella delle candele. La corrente, è stata da tempo staccata, come l’acqua; però piove, a dirotto, tanto che nell’atrio, tra la sala da pranzo e quella da notte, sul pavimento sono state disposte una serie indecifrata di pentole, che servono a raccogliere l’acqua che cade dal soffitto, che i nuovi proprietari avranno cura di risanare quanto prima, prima che i danni alla struttura si facciano irreparabili. Piove anche sulla camera da letto, però lì, non ci voleva. I cassetti aperti, svuotati da indumenti, traboccano acqua piovana, come il pavimento, che sembra voler cedere da un momento all’latro. Sono inzuppate anche le scarpe, i maglioni, gli scialle, le suppellettili e la pioggia e la desolazione devasta anche noi, spettatori privilegiati, che in quella casa ricordiamo, perfettamente di non esserci mai stati, né tanto meno di conoscerne gli abitanti. Però, prima di uscire, una delle due amiche dell’orfana (dis)abile della vecchia madre morta, ci consegna, accanto ai giochi dei tre figli adolescenti, un pezzo di carta e una biro, invitandoci a scrivere qualcosa: noi abbiamo pensato a nostra madre, che non ci ha lasciato nulla, se non un amore sconfinato verso la vita, che abbiamo riciclato su nostra figlia. A lei, alla nostra madre morta da bambina, le abbiamo chiesto di proteggere Alagia.
