SESTO FIORENTINO (FI). Qualcuno, nel mondo del teatro sommerso dall’incertezza, da questa quarantena, ne è uscito più forte, più incazzato, più concentrato. Migliore. La prima impressione l’abbiamo avuta con Silvia Frasson (La vita salva); la seconda, dopo aver assistito ad alcune stucchevoli e inutili letture che avrebbero dovuto rappresentare la rinascita dopo i domicili forzosi imposti dai contagi e che invece hanno fatto presagire al peggio, è arrivata con Valentina Banci (I giganti della montagna). Ieri sera (si replica oggi, 4 ottobre, alle 20,30 e alle 22), alla Limonaia di Sesto fiorentino, in uno degli appuntamenti della 33esima edizione di Intercity Festival, il terzo utilissimo, indispensabile, è il caso di scrivere, tassello di una resurrezione vera, l’ha messo Teresa Fallai, vestendo gli abiti, con la sua solita, meravigliosa, eleganza, di Vento, Pioggia, Mare, la trilogia, di complicata lettura e ancor più impegnativa interpretazione, di Jon Fosse, icona monumentale del teatro contemporaneo che continua a farsi ispirare dai suoi testi e dalle sue poesie. Tre appuntamenti teatrali nati sotto genuine influenze artistiche, non influenzate dal buio della reclusione da coronavirus, accidente cosmico che ha solo postdatato i loro esordi, ma che hanno a nostro avviso incattivito e impreziosito i protagonisti, anzi, le protagoniste.

In alcune circostanze, arrivare in platea conoscendo il mood della serata, è elemento obbligatorio per un sano e forbito godimento dell’offerta; in altre, ci si può permettere il lusso, seppur rischiosissimo, di resettare ogni conoscenza e lasciarsi travolgere dagli accadimenti scenici, cercando di metabolizzare, sintonizzarci e farsi contaminare dall’evolversi del racconto. Ieri, con Teresa Fallai, si poteva tranquillamente optare per decidere di entrare in teatro e imboccare entrambe le strade percorribili; il risultato sarebbe stato la stessa, identica, sensazione, quella di trovarsi di fronte a una meravigliosa interprete capace, in poco più di un'ora, di snocciolare il ciclo esistenziale secolarmente rodato nel quale, ogni spettatore, si può seraficamente riconoscere e diabolicamente soffrirne. L’incontro, casuale, imprevisto, ma cercato e agognato come linfa vitale di sogni, aspettative, delusioni apre lo spettacolo: una sola panchina in legno in un giardino abbandonato in prossimità di un cimitero, reso decifrabile da un’unica croce (il vento); le sofferenze atroci, inesplicabili, chimiche, di una madre e le sue lacrime, che si perdono e si confondono con tutte le altre lacrime sgorgate da altrettanti indefiniti dolori (la pioggia); l’ultimo porto di una navigazione sofferta, un cabotaggio infinito, con l’illusione che lì, in quel posto specifico ma non tracciato da alcuna mappa, possa gettarsi l’ancora per definire, ricordare ed eternizzare l’amore e la sua esistenza (il mare). Sulla scena, scrupolosamente e minimamente allestita da Anna Collazzo, scandita dalle musiche e dagli effetti sonori di Vanni Cassori e consolidata dalle voci (registrate) offerte da Marcella Ermini, Paolo Lelli e Gabriele Giaffreda si muove, in punta dei piedi, Teresa Fallai, ballerina classica specializzata in danza contemporanea, nonché bossanovista straordinaria, che abbina e unisce agli studi attoriali quel senso incompiuto e vacuo della vita e dei suoi percorsi, iniziando, puntualmente, da zero, da un altro posto, altrove, lei che potrebbe adagiarsi, con successo, credito e profitto, su quel letto di foglie costellato dal perfetto apprendimento dell’uso del corpo e della voce, della voce e del corpo, immersi nel dolore dell’inesorabile ciclo esistenziale che spesso si alimenta con amori impossibili, dolori inenarrabili e speranze vane di potersi fermare a ricordare. E risorgere.

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