di Beatrice Beneforti

PRATO. Dovremmo partire dal finale per provare a far capire quello che abbiamo compreso guardando Don Juan al Teatro Metastasio di Prato (si replica tutte le sere alle 19, fino a domenica 10 maggio, alle 18) che riapre i battenti dopo questa estenuante pandemia virale, ma non si può. La trama si capiva bene (fa parte degli annali), ai limiti dello scontato, fino al finale, che non possiamo svelare. I danzatori protagonisti, sedici in tutto, di AterBalletto, per la coreografia di Johan Inger su una partitura originale di Marc Alvarez, non erano tutti giovanissimi, specialmente lui, il Don Giovanni. Le luci, all’inizio dello spettacolo, erano poco convincenti: lasciavano delle scene in ombra, ma poi c’è stata una citazione di Stanley Kubrick (precisamente quando, in Barry Lyndon, a un certo punto, il regista usa luci calde e fredde nella stessa inquadratura per farci sentire che qualcosa è in contrasto) che ci ha convinti. La musica non ci è piaciuta sempre: a tratti troppo da cinema anziché da teatro, ma funzionava alla perfezione, visto il gradimento collettivo degli spettatori, che hanno riempito, nel febbrile rispetto delle norme anti-Covid, tutti gli spazi disponibili dello storico teatro pratese. Non ci sono piaciuti, nella rappresentazione, i costumi, che abbiamo trovato bruttini.

Abbiamo avuto l’impressione, guardando costumi e scenografia (dei rettangoli neri che i ballerini spostavano perfettamente) di assistere a uno spettacolo fatto da professionisti, ma con poche finanze: si fa con quel che c’è. E questo non è sempre un male. Dentro, però, c’era di tutto: l’abbandono, il doppio, il senso di colpa, la fuga, l’ego, l’infedeltà, la solitudine, le convenzioni. Lui, il Don Giovanni, come la maggior parte dei nostri Casanova, era apparentemente virile, emulato dagli uomini e desiderato dalle donne, ma, ovviamente, non pareva felice. Loro, le donne, che più o meno volontariamente gli orbitavano intorno, rappresentavano perfettamente l’attitudine al sacrificio, all’adulazione e l’erigersi a salvatrice unica dell’uomo maledetto e incompreso che ogni persona innamorata ha. Assistere, da spettatori, alla rappresentazione della realtà, ha creato un conflitto tra la negazione dell’evidenza e l’accettazione di come l’infatuazione - senza stare a scomodare l’amore - abbia il potere di rendere le persone, spesso, ridicole. Noi compresi. Ieri, sul palco, abbiamo rivisto il Don Giovanni già incontrato altrove, i suoi problemi, la sua ricerca disperata di risposte e persone, la sua abilità alla creazione del personaggio, le sue donne. Insomma, sul palco del Met, più che un balletto affidato a sedici straordinari danzatori, è andata in scena la nuda e cruda realtà, che continua a restare in voga.

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