PRATO. L’augurio, soprattutto per loro, Elvira Frosini e Daniele Timpano, stavolta non da soli, ma con Marco Cavalcoli, è che Ottantanove, in prima nazionale al Fabbricone di Prato (si replica alle 20, fino a domenica 30 maggio, alle 18), non lo veda Franceschini e il suo entourage, perché se qualcuno glielo dovesse spiegare, lo censurano. È un comizio di sinistra, lo spettacolo, ma di quella sinistra abbandonata in favore dei salotti e dunque, incomprensibile per chi è restato ad aspettare il condottiero, l'inserruzionista, Masaniello; alla massa, che ignora la storia e le sue vicissitudini e a chi avrebbe dovuto studiarla, ma che l’ha debitamente dimenticata. Prodotto dal Metastasio, in collaborazione con Kataklisma Teatro e Teatro di RomaTeatro Nazionale, la rappresentazione oscilla tra due secoli, circoscritti in due annate, particolarmente feconde, decisive, per alcuni versi letali: il 1789 e il 1989. La Rivoluzione francese e la caduta del Muro di Berlino, due momenti epocali, preceduti, condivisi e suggellati da una serie di vicissitudini che hanno sempre più il sapore di una gigantesca macchinazione che ha minato la storia, la politica, la società, la famiglia e da ultimo, ma non ultimo, l’uomo.

L’esordio, in un silenzio surreale che si protrae per moltissimi minuti, è rotto, nel suo incantesimo keatoniano, da uno spettatore, che ammonisce gli astanti, ma soprattutto quelli che a teatro non ci sono, perché assenti, storici e ingiustificati, sulla imminente, contemporanea e irreversibile deriva umana, da una prospettiva condivisibile e condivisa nei princìpi, ma che si sgretola con il trascorrere del comizio, un’imponente prova di forza teatrale che regala meravigliosi esercizi ginnico/gutturali imbevuti da una sacra forza di indignazione, che ha tutto il sapore di essere un canto, stonato e discorde, di un cigno ammalato, abbandonato, in attesa che le convenzioni cosmiche gli diano il colpo di grazia. La sofferenza italica – stavamo per scrivere la nostra, lapsus comprensibile – prende origine proprio da quella maledetta presa della Bastiglia, che al di qua delle Alpi Marittime, Cozie e Graie abbiamo sempre vissuto con un profondo e comprensibile senso di inferiorità. Senza più riuscire a scrollarcelo di dosso. Anzi, con il trascorrere delle stagioni, il divario insurrezionale si è andato ulteriormente accentuando. Ma non è colpa dei francesi, nonostante Paolo Conte e i Maneskin potrebbero argomentare il contrario, se siamo così caduti in basso. La responsabilità è globale e globalizzata, ma l’Italia – mi stava riscappando un noi inopportuno – è uno di quei paesi che ha fatto di tutto per lasciarsi lobotomizzare, divenendo scempio universale. Ottantanove è davvero un commovente grido di dolore affidato a una batteria attoriale che si indigna e si spiana beata con meravigliosa armonia, riuscendo nella non facile operazione, che ha tutta l’aria di essere un’impresa, di (con)fondere la Storia, ma anche quella con la s minuscola, con lo spettacolo, il divertissement. Talvolta, durante i serratissimi novanta minuti di recita, succede anche di sorridere e ridere alla dabbenaggine screanzata dei difetti ostentati e messi alla berlina; poi, però, si torna velocemente sui passi offesi e si capisce, per l’ennesima volta ancora, perché il teatro non sia lontanamente difeso e perché i teatranti non vengano considerati dei lavoratori. Nella stessa identica maniera per cui, negli anni oscuri, questo Stato sempre meno legittimo, pericolosamente colluso, spudoratamente corrotto riscoprì la propria integrità durante il sequestro Moro, sì, quell’Aldo morto.

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