di Letizia Lupino

PISTOIA. È in un martedì sera di fine estate che la Fondazione Jorio Vivarelli a Villa Stonorov di Pistoia e SpaziAperti2021 ci accompagnano verso la chiusa di una strana stagione teatrale che odora di rinascita e di respiri ampi. Il vialetto che favorisce l’ingresso al piccolo cancello a poco a poco si riempie di macchine. Parlottii e brusii che si avvicinano porgendo la fronte e lasciandosi misurare la febbre? L’attesa. Tutti ben allineati attendiamo di scendere in quel piccolo labirinto di magia che si aprirà sullo spazio scenico adibito per l’occasione. Sedie a giri concentrici che lasciano il centro aperto, un vuoto da riempire; il palco è dietro, a riposo. Su ogni sedia un foglio e un lapis: è già spettacolo. Siamo pronti. Luigi De Angelis, il regista, insieme alla drammaturgia di Chiara Lagani partendo dai documenti audio e video delle teche Rai hanno fatto sì che Andrea Argentieri riuscisse a interpretare Primo Levi, quasi come un sarto certosino con il suo primo abito maschile; e a confezionare poi Se questo è Levi. I sommersi e i salvati. Il passo misurato e preciso di Argentieri si fa largo nel suo centro.
Sembra quasi un maestrino un po’ pignolo e severo, e come se la classe esistesse davvero, sottili mugolii si intercettano nell’aria già fresca. Il concetto è semplice, il pubblico lo intervisterà, il foglio serve a questo, a farci leggere, per chi vorrà, le domande trascritte. Pubblico che diventa parte attiva, fautore guidato della storia, con i propri tempi e i propri indugi e Primo Levi sarà lì ad aspettarci guardandoci dritto negli occhi. Una forza che ci farà abbassare i nostri o forse solo il volume delle domande. Un morbido rispetto che vuole avvicinarsi quel tanto che basta per vedere la Verità. Si inizia con timidezza, quella che non ha Andrea Argentieri che risponde con orgoglio, con l’orgoglio della ferita che vorrebbe pulsare ancora, cristallizzandoci però sulla scelta delle domande che, piano piano, si fanno sempre più rapide adeguandosi a tratti alla rapidità di risposta. Rapidità che però non ci avvolge quanto vorrebbe, anzi, ci allontana facendoci render conto della distanza, e non di tempo, ma di sentimento. Un sentimento monotonale che mal rispecchia la montagna russa dell’esperienza vissuta. Un pensiero, un indugio, magari una mano che trema o che si massaggia la tempia in cerca del ricordo, avrebbero avvicinato il personaggio all’umano sentire, alla propensione in avanti di spalle e volto in un sussulto che avrebbe gridato Ancora, racconta ancora. Il confronto sarebbe stato micidiale, quasi fisico, come il dolore caldo e prepotente di un puntello che preme alla base della testa, la pancia poi non avrebbe mollato così facilmente. La voce c’è, il personaggio nella sua forma esteriore anche, ma ci fa cigolare. Siamo a scuola, a lezione, lo sguardo svolazza e torna oziando, serio. È la forma come mezzo di difesa e di ricostruzione di un’identità che fu precaria, è il peso di una ferita troppo grande per la memoria. È la voce che non usa parole la grande assente della serata.
