FIRENZE. Di quei due, si sapeva già tutto: poliedrici, camaleontici, sensuali, ironici, impeccabilmente disordinati. Si strizzano l’occhio da oltre vent’anni, Filippo Timi e Lucia Mascino e appena possono, si danno appuntamento su un palcoscenico, anche se in compagnia di altri colleghi. Loro due, da soli, insieme, li avevamo già visti, qualche tempo fa (luglio 2019), a Peccioli, ne Il piccolo principe, ma si trattava di un reading, che equivale, a nostro avviso, alle formazioni musicali che si specializzano nei tributi. Con Promenade de santé, scritto contorsionistico di Nicolas Bedos, tradotto da Monica Capuani, trasportato sul teatro, anche se con angolature spudoratamente cinematografiche, da Giuseppe Picconi, al Niccolini di Firenze ancora stasera e domani, giovedì 21 ottobre, sempre alle 19,30, la coppia (di fatto) ha raggiunto una simbiosi empatica di rara bellezza: si scrutano, lusingano, disprezzano, desiderano, posseggono, si amano, rispettandosi, senza mai perdere di vista che il loro amore, l’amore, è, indiscutibilmente, tossico, necessario, indispensabile, ma tossico, come tutti i contratti sentimentali, tanto che per dichiararsi ha bisogno di essere rinchiuso in una clinica specialistica, lontano da ogni distrazione e tentazione, particolarmente persuasiva, inoltre, visto che si tratta di una struttura immersa nel verde, dove ci sono due panchine, luogo privilegiato di incontri tra pazienti, eterosessuali, di entrambi i sessi.

Ma è d’amore che si vuol parlare, sul quale il regista vuole confrontarsi, soprattutto con il pubblico, ora che, seppur munito di mascherina e dopo aver superato le colonne d’ercole del lasciapassare verde, è potuto tornare a riempire le sale, in ogni ordine e grado. E con un’interpretazione così labile, personale e ondivaga che diventa quasi incomprensibile grazie alla malleabilità creativa dei due protagonisti, che già in tutte le precedenti occasioni hanno dato vita, quando più, quando meno, alla loro indispensabile indisciplina attoriale, che si manifesta e personifica soprattutto nella massiccia dose di indiscrezione dell’interpretazione dei copioni. Sono entrambi ricoverati in questo lussurioso, indiscreto e ovattato rehab? C’è solo lei, ballerina di danza classica, che si innamora dell’unico uomo che non l’ha posseduta, che somiglia, oltretutto, maledettamente il medico che l’ha in cura? Ma no, c’è anche lui, nella costosissima clinica di recupero; ce l’ha mandato sua moglie, stanca di assistere ai racconti dettagliati che il marito le fa delle sue amanti e quando finalmente decide di lasciarla per evitarle di sprofondare nell’assoluta mancanza di dignità, in cura inizia ad andarci lei e diventa, paradosso dell’amore, tossico, la migliore amica della paziente che vorrebbe avere come compagno proprio suo marito. Un arzigogolo degno dei migliori numeri de La settimana enigmistica, affidato al talento, naturale, ma costruito con dovizia di dettagli espressionistici, di due animali incontrollati e incontrollabili, soprattutto a teatro, dove occorre mirabilmente compensare il fuoco spirituale che anima la passione di un mestiere meraviglioso con la malleabilità di chi accorre a vederti, chiedendoti risposte a domande non fatte e gradendo domande a risposte difficili da dare. Perché in cura, soprattutto per riuscire a gestire al meglio, o con il minor numero di cicatrici, l’amore, ci potremmo andare tutti, anche coloro, ma forse soprattutto quelli che, dell’amore, sono convinti di poterne fare a meno. Un dolore indispensabile, un tormento arroventato che spiana beato i piccoli impercettibili sollievi che, con cadenze cicliche, ristorano gli affanni di una vita. Come questa passeggiata di salute, fatta in compagnia di due pezzi pregiati del teatro italiano in una sala piena di spettatori, che credono, con stupore e timidezza, essere arrivato il momento di poter rialzare la testa e proseguire il viaggio.

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