PRATO. Non conosciamo a menadito la sua lunga produzione artistica, ma se non l’avesse ancora fatto, l’inviteremmo, volentieri, a prendere contatti con il genovese Andrea Ceccon, con il quale, forse, per antiche ragioni legate alle comuni origini del Regno di Sardegna, a nostro avviso, formerebbe una coppia esplosiva. Ma anche da sola, Monica Demuru, con la sola assistenza di qualche modesta base musicale e la sua voce polifonica, che si adatta, maledettamente bene, a quel viso di cui non si ha sentore se stia andando o ritornando, fa la sua porca, esilarante, meravigliosa figura. Lo diciamo anche se potremmo dubitare della sua febbrile ricerca, quella che le ha suggerito di raccogliere, nel mondo del web, del tubo catodico, ma soprattutto delle esperienze personali attinte, quotidianamente, grazie solo alla facoltà di esistere e di farlo con attenzione, alcuni frammenti indigeni di tre realtà geografiche ben definite: Roma, Prato e Cagliari, per formarne una piccola, esaustiva Encyclopédie de la Parole, dalla quale è nato, con la regia di Joris Lacoste, Jukebox, al Magnolfi di Prato, ancora stasera, alle 19,30 e domani, 7 novembre, alle 16,30.
La platea, disposta a emiciclo attorno al palco spostato sul parterre, ha a disposizione il foglio di sala nel quale sono contenuti trentasei suggerimenti che la poliedrica attrice/cantante/ doppiatrice/ginnasta cagliaritana ha ovviamente raccolto nel proprio block notes e che, proprio come un vecchio jukebox, recita a richiesta. Le basta schiarirsi la voce, riacquistare una postura degna di un distico, inspirare ed espirare una sostanziosa boccata d’ossigeno per indossare movenze, slang e smorfie della gag successiva, coatte e maghe, che somigliano, un po’, alla Meloni, ma anche a Stitch. E poi una sfilza, in sequenza richiesta dal pubblico, di piccoli grandi doppiaggi di personaggi celebri, che sono quelli che popolano il mondo che ci gira attorno continuamente quasi in modo ossessivo, maniacale e con il quale non possiamo non farci i conti, anche soltanto per deriderlo, denigrarlo e prenderne, anche artisticamente, le distanze. A Prato, Monica Demuru, era già stata, due anni fa, a Contemporanea Festival (senza dimenticare di dire che è uno dei punti fermi della compagnia virtuale del Metastasio), sempre con lo stesso spettacolo, che nel frattempo non ha potuto fare a meno di rinnovarsi, con altre inconfondibili sagome, quelle che intasano le piattaforme sociali, il web, ma anche i telegiornali. Ma quali sono le differenze sociali, semantiche, umorali, mimiche tra Roma, Prato e Cagliari? Spesso e volentieri soltanto l’accento, che l’artista sarda riproduce esemplarmente e se con il cagliaritano l’operazione le riesce sin troppo facile, con tutta l’inesorabilità della chimica, ammirevole è quando indossa gli abiti metropolitani e lanieri. Finito lo sketch, riconquista il centro del palcoscenico, ascolta il desiderio lanciatogli dal pubblico e, se occorre, sfoglia il proprio contenitore, dove ci sono, in sequenza alfabetica, i singoli siparietti; per qualche esibizione, invece, non le occorre attingere ad alcun appunto: ci pensa lei, il suo straordinario camaleontismo, sfidando, contemporaneamente, le leggi della fisica e della storia: come può, uno scricciolo, che siederebbe, senza disappunti, su una cattedra di matematica del più prestigioso liceo scientifico cagliaritano, contenere quella miriade di informazioni, smorfie, spigolature, suoni gutturali, nasali, energia atomica a profusione alcolica e come fa, una donna, a far ridere a crepapelle, in modo incontenibile e incontenuto, senza ricorrere ai soliti irritanti luoghi comuni che hanno decretato, nel tempo, l'inesorabile maschismo comico? Chiedetelo direttamente a lei, a Monica Demuru, ma fatelo soltano dopo aver inserito la moneta nell’apposita fessura, altrimenti, il jukebox, resta un soprammobile.