PESCIA (PT). È così difficile provare a ricalcare le orme di due giganti come Paul Newman e Geraldine Page, che forse varrebbe la pena aggiungere qualcosa, onde evitare di finire nell’inesorabile cono dell’impietoso confronto. E invece, per quella discutibilissima legge in voga sulla rilettura dei classici – e La dolce ala della giovinezza lo è, inoppugnabilmente, anche se a teatro non se n’è fatto scempio – a Gabriele Anagni e a Elena Sofia Ricci, il regista, scenografo e costumista Pier Luigi Pizzi ha solo chiesto di fare attenzione al copione. Il resto, la maledizione del fallimento, l’inesorabile caducità della vita, la brevissima durata della giovinezza e tutte le illusioni che si trascina dietro, onnipotenza compresa, sono diventate, da elemento centrale, forza recitativa, corollario. Gabriele Anagni è un gran bel ragazzo, non si discute ed Elena Sofia Ricci, sul viale del tramonto, sembra esserci sempre stata, quasi nata. Ma la scrittura originaria del testo di Tennessee Williams (1952), catapultato a teatro, sette anni dopo, da Elia Kazan e poi, a distanza di due lustri, da Richard Brooks al cinema, contemplava, inesorabilmente, l’inconsolabile dolore del tramonto: della giovinezza, fisica e artistica.

È proprio la fisicità che manca, protetta e vanificata da un senso, altamente inopportuno, del pudore. Chance Wayne, il gigolò, fallito nello spirito, negli intenti e nei progetti, non mostra mai le sue capacità erotico/amatoriali, unica arma che lo mantiene sull’onda; Alexandra Del Lago, la star del cinema ormai dimenticata, che si consola con psicofarmaci, droga e sesso a pagamento, non provoca mai, nel pubblico, quell’inevitabile tenerezza mista a disgusto che una donna incapace di arrendersi al tempo e alle sue leggi mette a pubblico ludibrio. E anche gli amici (Chiara Degani, Flavio Francucci, Giorgio Sales, Alberto Penna, Eros Pascale e Marco Finizzi) di giovinezza del bel Chance e il suo primo amore (Valentina Martone), la sua fidanzatina Haevenly, lasciata una notte in pasto a stupratori che le segneranno l’esistenza, che potrebbero e dovrebbero infierire, che dovrebbero sbranarlo con i sensi di colpa, la disumanità e la straordinaria occasione perduta di provare a essere normale e farsi strada, senza orpelli, nel borgo natio, nemmeno loro si mostrano cinici quanto si sarebbe dovuto, nemmeno loro infieriscono. La rappresentazione decolla un po’ nell’ultimo quarto, quando raggiunta telefonicamente dalla stanza dell’albergo, una nota critica cinematografica rivela alla vecchia stella del grande schermo, ormai preda della follia e in fuga, sotto copertura anagrafica, dal fallimento, come la sua ultima interpretazione cinematografica sia stata un successo senza precedenti; un piccolo dettaglio che provoca l’improvvisa resurrezione di una divinità sul viale del tramonto, con tanto di promesse e impegni di tenersi alla larga dai tentacoli dell’effimero e il definitivo abbandono dell’illuso e ormai senza più terra bell’Antonio. Un po’ poco, però.

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