LIVORNO. E chi vi dice che sia una disgrazia, cadere. Nella premessa non ci sono retaggi cattolici, che benedicono gli ultimi, né di riscossa, che animano la speranza. Cadere e restare a terra, senza accusare fratture, emorragie, dolori, capogiri, contusioni. Restare a terra perché la vita, di più, oltre a quello a cui ci ha condannato, non possa ulteriormente infliggere. A raccontare questa storia, Di Malavoglia - tra un complemento di specificazione e una locuzione avverbiale - surreale, poetica, morale, civile e politica soprattutto, ha pensato Michele Santeramo, uno degli ospiti di prestigio di Scenari di Quartiere, rassegna nomade di Livorno che invece che approfittare degli spazi consueti, ha deciso di impreziosire angoli di città che altrimenti sono riservati e destinati a passeggiate con molossi e soprammobili al guinzaglio, qualche canna e pomiciate all’imbrunire. È successo lì, nel Parco sotto le mura Lorenesi, nel quartiere San Marco, poco dopo le 19,30, quando il sole alto e caldo ha iniziato la sua quotidiana e inesorabile discesa agli inferi notturni, regalando alla numerosa platea, principalmente femminile, come al solito, l’ombra indispensabile per assistere alla rappresentazione senza obbligare nessuno a farsi visiera con una mano appoggiata sulle sopracciglia. I gabbiani, in compenso, letteralmente insensibili alla poesia del racconto, hanno continuato a emettere, imperterriti, i loro garriti, che appartengono al rito, essenziale, della cena, quando il vento decresce, il mare si appiana e pescare è più semplice.

Perché i gabbiani, a differenza dei Malavoglia, alla loro Provvidenza pensano da soli e perché cadere, a loro, non è concesso, a patto che non si tratti di morire. È così che Giovanni Verga resuscita, tornando in auge, almeno nelle visioni di Santeramo, con i suoi personaggi senza tempo e luogo, che proprio per questo sono condannati a essere presi in prestito da una miriade di indefiniti ultimi condannati a essere e restare tali. Siamo, probabilmente, vicino al mare, ma siamo in campagna, dove il precario di turno è costretto a fare altro, oltre a quello che abitualmente fa. È sposato, con figli; sulle sue spalle, sulla sua fatica, sul suo senso integerrimo di abnegazione, poggiano sicuri i palmi e la fiducia tutti i componenti della famiglia, la sua e quella di origine, nonché la comunità alla quale appartiene. Ma un giorno cade, goffamente, senza farsi male, ma lì decide di restare, almeno un paio di giorni, per guardare il cielo, sognare tanti diseredati come lui e farsi sognare da altrettanti falliti. Al fascino vocale e timbrico, naturale, certo, ma sul quale Michele Santeramo ha sempre lavorato con attenzione maniacale, si è aggiunta la lep steel guitar di Sergio Altamura, compagna di circostanza per questo volo cieco e muto che riporta tutto e tutti, nonostante si sia sull’onda della rivincita alla quale ci stiamo preparando, al giorno della nostra sconfitta. Poco prima di chiudere, infatti, congedandosi dal calore del pubblico, come suo solito, con la citazione del collega settentrionale Alessandro Manzoni, il crooner di Santeramo in Colle ha espressamente chiesto ai presenti di appuntare, sul proprio telefonino, su un pezzo di carta o dove ritenessero più opportuno, il giorno della loro sconfitta. Anche noi siamo stati tentati dal farlo, ma abbiamo deciso di rinunciare perché sono state tante, troppe, le volte che abbiamo perso e invece di riconoscere, come avremmo dovuto fare sottraendoci, una volta e per tutte, dal massacro della rivincita, la nostra sconfitta, ci siamo ostinati a rialzarci, perché così ci hanno sempre detto e insegnato, perché questo è l’unico modo per come riuscire a cancellarle tutte, una ad una. E invece, continuiamo a perdere e così, probabilmente, proseguiremo, fino a quando svanirà del tutto la possibilità di riscatto e decideremo di restare sdraiati, caduti. Nella speranza – torna impetuosa – che quel giorno si possa avere la consapevolezza della resa e che non sia soltano l’inesorabile ultima onda.

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