di Letizia Lupino
CASALGUIDI (PT). Oh Sergio, me lo porti un caffè? Si immagina facile una domanda così, una banale quotidianità che via via perde forma e volume per poi riacquistarli come quei disegni tridimensionali che devi muovere tra le mani per indovinare profondità e consistenze altrimenti piatte e sopite. La risposta poi non si farà attendere perché non ci sarà; un’occhiata certo, l’illusione del dialogo quando invece è una monolitica resa dei conti, non un punto e chiuso, ma un punto e virgola: Guarda Sergio a che punto e virgola siamo arrivati. Si snocciola in questo modo lo spettacolo che è andato in scena al teatro Francini di Casalguidi in una serata tanto uggiosa e antipatica, quanto avvolgente e atroce invece è stata l’opera di Francesca Sarteanesi. Niente fronzoli, nessun orpello e nemmeno un sipario da aprire, solo le luci che si abbassano in sala e lei che sale sul proscenio, di tre quarti, pronta a dialogare sì, ma fondamentalmente con sé stessa. La sommessa necessità di dare voce ai moti dell’anima e dello stomaco per renderli veri, reali, visibili. Per cercare, sottovoce, di non raccontarsela più. E poco importa se Sergio non c’è, non esiste nonostante il suo figurato silenzio comunichi in modo forte e chiaro. Sergio è il pretesto di una fuligginosa vita di coppia, comune, fatta di piccole cose, di merletti sui mobili giusto un po’ polverosi, di piccole porcellane di dubbia eleganza sparse in casa, di gambaletti color carne e sandali comodi ma così comodi Sergio. E schemi sociali così forti che carezzano a mano aperta il ridicolo. È atroce ascoltare questo frammento di vita sgualcito perché tutto pare molto stretto o piccolo, come piccolo è il tempo - solo cinquanta minuti - come piccoli sono i turbamenti narrati, senza picchi, e così piccolo lo spazio di manovra nonostante un palco, nonostante la totale mancanza di scenografia. Lei è quasi completamente immobile rappresentando alla perfezione ciò che lei racconta: l’inerzia di una relazione opaca, di finestre chiuse e pochi spiragli. Anni o mesi che si dilatano e si restringono fino a scomparire in un’estrema ordinarietà, affidandosi esclusivamente e interamente alla parola. Uno spettacolo che pare fatto di niente, un niente calibrato sui silenzi, su domande senza risposta, su una luce che si abbassa piano, su movimenti educatamente piccoli, su sguardi mai diretti, su un abbigliamento pissero che si lega in questa ordinarietà sfrangiata ad un linguaggio semplice, usato, sgualcito anch’esso in un equilibrio forse precario - si strapperà prima o poi? - ma Sergio, quant’è difficile costruire un equilibrio?