FIRENZE. Una tragedia disegnata sulle strisce cartonate di Linus Van Pelt, sì, quello dei Peanuts, di Schulz, il mondo popolato da soli bambini che non si sa da chi abbiano imparato a vivere, ma che, pur restando piccoli, sono diventati uomini. Donne. Omosessuali. Che affonda radici lontane, negli scritti mitologici, ma che si ripresenta, tale e quale, in una Sicilia in cui il tempo sembra essersi fermato, ai giorni nostri, nostri intesi come contemporanei, quelli dei primi esperimenti laboratoriali di distruzione di massa. Sullo sfondo c’è l’Aids, infatti, spada damoclea costruita per sfoltire il vizio, ma il virus dell’Hiv rappresenta solo una terribile, mostruosa, infallibile, letale variante accidentale. Al centro, al di là dei contagi e di una morte che sembra voglia darti sadicamente tutto il tempo di pentirti, c’è la solitudine, l’abbandono, la speranza del riscatto, magari, mortificata; nemmeno contemplata, se non nei sogni di mezza estate, che durano il tempo della breve traversata da Messina a Reggio Calabria, prima della nascita del ponte sullo Stretto, naturalmente, che prima o poi, qualcuno farà. Il dolore è intenso, soprattutto quando tenta di sopravvivere a sé stesso, giocandoci, come intensi sono i tre monologhi, quelli che si incalzano tra di loro sul palcoscenico vuoto del Teatro Puccini di Firenze, dove Joele Anastasi si scrive addosso una storia cucitagli su misura dall’alta sartoria, Io mai niente con nessuno avevo fatto, confidando nella solita meravigliosa, dolcissima, materna, fisica, oscena e sguaiata Federica Carruba Toscano e nell’inconsapevole ipocrisia di Enrico Sortino, una meschina, sdrucita, deforme e, condannata all’eternità, pagina di povertà, senza vincitori né vinti, senza domani, senza futuro, con un presente che vive solo nel flebile, paradossale e surreale entusiasmo dei protagonisti, abbandonati da sempre e destinati solo a sopravvivere a loro stesi. La novella, però, seppur minimalista, verghiana e pasoliniana, nichilista nel suo aspetto più lacerante, quello umano, rischia di non esplodere e rimanere ancorata ad un’azione autocelebrativa che potrebbe essere un riscatto, una rivalsa, una vendetta, senza riuscire a diventare un movimento, un’idea, rivoluzione. L’impressione è che dopo una serie di rappresentazioni di profonda corale danzante bellezza, l’enfant prodige catanese e la sua Vuccirìa Teatro si sia sentito in diritto e perché no, in dovere, di raccontare un dolore e farlo diventare il suo e anche del pubblico. Operazione che a noi, nonostante l’incalzante omaggio di numerosi e importanti premi ricevuti dalla rappresentazione, è parsa fermarsi sul limitare del palcoscenico, senza riuscire a scendere in platea e impadronirsi del pubblico, che ormai accorre, puntualmente e giustamente numeroso, a ogni richiamo del giovane regista. Il dolore dei protagonisti, però, la loro schizofrenica idea e volontà di liberarsi da quel troppo faticoso fardello, ognuno inseguendo i propri ideali, che sono, ribadiamo, la base d’asta di una dignitosa sopravvivenza, non diventa riflessione popolare, non si insinua tra le viscere del pubblico, non viene metabolizzato come ingiustizia collettiva, storica, sociale, ma resta lavoro attoriale, mirabile e ammirevole, ma non indottrina, non scalfisce, non genera proseliti, non partorisce seguaci, non rischia di contagiare fanatismi. In sala non scende una lacrima perché nessuno sembra riconoscersi nello specchio della rappresentazione, seppur questa, rimendo ancorati alle impressioni veriste, non abbia nulla di trascendentale e somigli, da vicino, molto vicino, a un’infinità di altre storie quasi fraterne, lette, sentite, sussurrate, sofferte, piante, abbandonate, sepolte.

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