PISTOIA. I muscoli, per nulla intorpiditi, delle cosce e dei polpacci, tradiscono trascorsi ginnici di eccelsi livelli. L’orologio della vita e dei suoi irresistibili vizi tentacolari, anche. Oliver Dubois resta e resterà, senza probabilmente, uno dei migliori venticinque danzatori al Mondo, senza correre il rischio che qualche giovanotto lo faccia scendere da quell’Olimpo. Superata la soglia dei cinquanta, però, la vita, soprattutto per taluni mestieri, offre altre opportunità, diversi linguaggi, nuove comunicazioni. E non è quello che ha fatto lo sceneggiatore francese ieri sera al Funaro portando in scena My body of coming forth by day? Sì, ma almeno noi, esigua, quasi unica, testimonianza (sono usciti tutti estasiati, ringalluzziti, animati da un nuovo anelito esistenziale), non ne sentivamo alcun bisogno. Anzi. Abbiamo avuto l’impressione che la sua sistematica ricerca dissacratoria dei ricordi del suo corpo e delle gocce di sudore lasciate su centinaia di palcoscenici siano, ormai, l’unico modo per restare, ancora per un po’, sotto i riflettori, perché fuori da quel cono di luce, forse, non riesce proprio a starci. E visto che non ci sono più corpi di danza disposti a ironizzare, fino alla derisione, il suo passato, Olivier Dubois cerca complici tra il pubblico. Qualcuno si posiziona su una delle tre seggioline in fondo a destra perché obbligato da chi gli siede vicino; altri, la maggior parte, si lanciano a fionda nell’arena, perché hanno capito che in quella situazione ci sarà spazio, per quei famigerati cinque minuti, anche per la loro totale inabilità. Basta scegliere una delle buste esposte a ventaglio dal mattatore e nelle quali ci sono custodite e scritte alcune delle centinaia di performance, con musiche relative, delle sue esibizioni. Prima di ogni dimostrazione, un goccio di champagne, qualche tirata di sigaretta e una parziale svestizione: la scarpa destra, la sinistra, un calzino, la giacca, i pantaloni e anche i boxer, abbassati, sul tergo, fino agl’inguini, a natiche scoperte. Il pisello ha preferito non mostrarlo, ma senza sottrarsi alla necessità di posizionarlo al meglio. I movimenti, la tensione e gli sviluppi muscolari, sono quelli di chi ha danzato per una vita; molta ironia, parecchia drammaticità, ricordi affievoliti nell’intensità, non certo nella memoria, che li conserva gelosamente e che possono essere estratti e sguainati in un qualsiasi momento. Quattro, cinque, pillole della sua magnifica carriera artistica racchiusi in un cofanetto di poco più di un’ora e mezzo offerti in avari trailers raccontati in un francese sistematicamente sporcato da coloriture anglofone e traduzioni in italiano con accenti sbagliati. Sulle note di Frank Sinatra, Celine Dion, sui ritmi dei Massive Attack, su arie classiche e techno, Olivier Dubois rivive i suoi commoventi fasti offerti nei Saloni di tutto il Mondo approcciando sé stesso e le sue indelebili memorie rivisitando gli schemi delle sue performance e abbozzandone solo qualche passo. Il fisico non lo supporta più, ma lo aveva detto prima di esibirsi, scherzando con il pubblico al quale aveva chiesto rumorosa complicità, che lo spettacolo sarebbe stato, perché avrebbe voluto essere, una lode di ringraziamento alla danza e alla sua vita. Danzante. Costellata di ricordi, successi, applausi, sudore, sangue. E oblio. Prima dell’amplesso finale, in una tribù che sembrava non aspettare altro, nel sacrificio del toro ferito, sanguinante, esanime, accerchiato dagli indigeni suoi fedeli/spettatori, che lo hanno stretto in una morsa gioiosa, ma letale, lo ha ripetuto più volte: ho bisogno di voi. Anche noi, tutte le volte che andiamo a teatro, abbiamo bisogno di attori; a loro deleghiamo i suggerimenti di cui abbiamo vitale necessità, ma in una sacra, intimistica, comunione, gelosi destinatari di emozioni, che spartiamo, malvolentieri, anche con chi ci sedeva accanto.