PRATO. Complicato, rigoroso, terribile, cinico. Se volete godervi fino in fondo L’anitra selvatica, che la regista Paola Rota, portando in scena il testo di Alessandro Paschitto, ha scritto sotto acido di Henrik Ibsen - che è già un acido di suo -, in replica, al Metastasio di Prato stasera, alle 19,30 e domani, domenica 1° dicembre, nel pomeriggio, grazie alla Produzione di TPE e del Metastasio, scordatevi che fuori le città agognino il Natale e tutti i suoi buoni propositi, con tutti i suoi innumerevoli vantaggi per ogni tipo di acquisto e calatevi, se ne avete forza e voglia, in una qualsiasi realtà condominiale, urbana, socialmente indistinguibile, una di quelle che appartiene, senza arte, né parte, a quella media borghesia inesorabilmente destinata a eclissarsi, approfittando, perché no, dei rigori climatici e del grigiore stagionale. Che padre è, Edoardo Ribatto e che rapporto ha con sua figlia, Sara Mafodda e su quale lunghezza d’onda, entrambi, si connettono con la moglie/madre Irene Petris. E chi era e, soprattutto, cosa faceva Giuseppe Sartori, l’amico di famiglia, figlio, a sua volta, del Presidente di una grande ditta nella quale, la madre, svolgeva un ruolo delicato e misterioso e dal quale, nonostante il lusso e il prestigio, decise di dimettersi? Succede tutto improvvisamente, diciassette o diciotto anni dopo e nessuno, tra i coniugi e l’ospite coetaneo, ha la benché minima voglia di dare spiegazioni. Eccezion fatta per la figlia, forse perché destinata alla condanna della cecità. Non vi sveliamo, né spoileriamo, altro per correttezza, ma anche se volessimo essere cinici, non saremmo in grado di farlo. La drammaturgia originaria di Ibsen fotografa una società di due secoli fa; Ibsen però, quando scriveva, non serviva il suo tempo, ma quello che in futuro altri sarebbero stati capaci di leggere. E il quadro eroico/idilliaco di quei giorni diventa un horror contemporaneo, con ognuno dei protagonisti disposti all’altrui massacro senza però essere disposti a svelare, nemmen per un istante, i propri misteri, senza aprire nemmeno un’anta dell’armadio nel quale conservano, gelosamente, i propri scheletri. Che fine ha fatto la casa dove c’era il grande salone con il grande divano? E come ha fatto, il padre, ad aprirsi uno studio fotografico e perché la madre non vuol dire per quale motivo, improvvisamente, decide di licenziarsi dal prestigioso ruolo di segretaria del Presidente di una ditta che continua, nonostante siano passai così tanti anni, a inviare, puntualmente, il giorno del compleanno della figlia, una serie indefinita di regali? E perché il figlio del ricco industriale, solo ora, dopo diciassette, diciotto anni, si fa vivo? Non trapela nulla dalla scenografia ovatta della rappresentazione, salvo le luci abbaglianti di qualche faretto e il fragore, improvviso e assordante, di qualche sparo, che sembra essere l’epilogo inevitabile di quale flash. Che cosa vuol sapere la figlia, che annuisce, senza prove, dei misteri familiari? E cosa nascondono, con pericolosa e dubbia riservatezza, i suoi genitori? Perché tutto si scatena solo all’arrivo dell’amico di famiglia? Che ruolo ha avuto, al di là dello schema prettamente professionale, la madre, prima, quando era la segretaria di fiducia dell’imprenditore e dopo, con suo figlio? Il marito sembra essere a conoscenza di ogni singolo altarino che nasconde, a sua volta, una verità scomodissima, lacerante, ingombrante. Si arriva all’ultimo flash/sparo su un campo di battaglia dove carnefici e vittime hanno avuto quello che, probabilmente, aspettavano e meritavano, ma senza che una logica o un’intuizione ne abbia spiegato, né favorito, quel tragico epilogo. Si resta appesi sul filo della menzogna, senza che nessuno dei protagonisti tradisca sé stesso, né il suo ruolo, in uno spregiudicato e violento gioco al massacro, dove nessuno, a costo di rivelare i propri segreti, sembra essere disposto a tagliare quel filo sadico e senza speranza. Sono i trucchetti ai quali la middleclass deve necessariamente ricorrere per riuscire a trovare il modo e la maniera per come estraniarsi dall’anonimato selvaggio della quotidianità e dare, a sé e alla propria famiglia, la parenza di un benché minimo prestigio.

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