PISTOIA. Sì, certo, Le fleur du mal, di Charles Baudelaire è pregnante, scatenante, giustificante. Lo si capisce dall’omonimo titolo, Le Fleur, anche se con il genitivo sottinteso, ma nel caos totale del giorno dopo, nella rivolta dei diseredati, dei reietti, degli ultimi, degl’invisibili, dei sans papier, tanto, tutto, siamo onesti, ce lo mettono loro, quelli del Balletto Civile, che trasformano una sequenza innumerevole e indefinita di dettagli fisici, vocali, scenografici, in una grande abbuffata, in uno zoo di Berlino resuscitato, in un’Odissea nello spazio che va ben oltre il primo anno del terzo millennio. Si capisce poco, all’inizio, quando una zombie craccata dal Fentanyl si aggira sul perimetro del palco alla ricerca, se non di un equilibrio, almeno della sua identità; si recita in francese e guardandoli bene, tutti i personaggi, si ha la netta impressione che la lingua non sia un pretesto teatrale, ma il loro slang abituale. Sbagliato; Michela Lucenti, regista e coreografa, Maurizio Camilli, Francesco Gabrielli, Alessandro Pallecchi, Gianluca Pezzino, Emanuela Serra e Francesco Zaccaria sono terribilmente bohemien, per usare un eufemismo che a teatro ci sta sempre bene – in realtà sono abbigliati da circensi caduti in disgrazia -, ma i loro nomi e cognomi tradiscono anagrafiche nostrane. L’Ert e il Teatro Nazionale non hanno avuto dubbi a produrre questa strip del gruppo T.N.T. e il Funaro di Pistoia ha visto bene di assoldarli alla causa della stagione 2024-25 dell’Atp, concedendo loro l’onore della prima regionale. Si, vabbè, ma di cosa parla la rappresentazione non ve l’abbiamo ancora scritto. Beh, liberatevi dalla curiosità, perché non lo scriveremo; no, no, non crediate che sia un incentivo affinché voi andiate a vederli: non c’è assolutamente nulla da dire, dunque da scrivere. Sono quadri in movimento, rigetti spiati, sconclusionate soluzioni. Alla destra del palco, fuori dalla luce del bordello che regna sovrano, una lavagna, una di quelle che si vedono (vedevano) nelle scuole prima della digitalizzazione. E uno alla volta, i personaggi, ci scrivono, un po’ in stampatello, un po’ in corsivo (dipende dalle dimensioni approcciate con la prima lettera) con il gesso bianco, i temi che dovrebbero venir trattati subito dopo, fino al successivo, anticipato da varie pennellate di cancellino (cimosa: come si chiama nelle vostre case la spugnetta con la quale alle elementari, medie e superiori avete ripulito la lavagna?): il poeta, la bellezza, il tempo, la noia, la rivolta, la ferita, la città e, dulcis in fundo, la poesia. Tutto questo mentre in scena si organizza il preludio della fine e si ipotizza quello che resterà un attimo dopo, quelli che riusciranno a resistere e come sarà l’universo all’alba del primo giorno. No, non c’è alcuna certezza che le cose potrebbero andare come il Balletto Civile ha ipotizzato, desiderandolo ardentemente, forse; la quarta guerra mondiale, quella che scoppierà subito dopo la terza, questa, che è alle porte a due passi dalla casa di ognuno, e che vedrà gli uomini contendersi il dominio con le fionde, potrebbe vedere in ogni trincea un genere umano ben lontano dalle ipotesi estremamente vacue e libertine formulate da Michela Lucenti. Ma la decadenza assoluta potrebbe anche decidere di abbonarsi a una via di fuga che fino a un attimo prima tutti credevano fosse la maledizione; sì, potrebbe andare esattamente in quel modo e vista la sovversione degli ordini fino ad allora costituiti, la società potrebbe ridisegnarsi e fondarsi su nuovi princìpi e prìncipi. Siamo spettatori non paganti (proprio come ci succede, da privilegiati ingiustificati, a teatro) di questi scenari, ai quali abbiamo deciso di non parteggiare per alcuna fazione. Non a caso, il sottotitolo della rappresentazione, recita atto performativo per corpi reali; della serie: sarà il caso che ognuno decida quali vestiti portarsi al di là del fiume e con quale gente decidere di trascorrere il resto del tempo che verrà concesso a ognuno di noi. Quel poco che si capisce all’esordio viene letteralmente inghiottito dal nulla che si capisce di aver capito alla fine, con la compensazione, affatto magra, di aver assistito a uno dei possibili giudizi universali allietati dalla lirica, dalla techno, da voci scordate e scoordinate, da corpi putrefatti e ristrutturati a nuovo, da amori impossibili e improbabili, dalla consolazione, rabbiosa e rancorosa, che la poesia aveva già tutto previsto.
