FIRENZE. La sintassi, quella di Agota Kristof, elementare, cruda, asciutta, priva di ogni orpello, aggettivi compresi, è pienamente rispettata, ma della tombale drammaticità de L’ora grigia a cui si ispira La sognatrice di Leonardo Capuano non ne abbiamo sentito mai un gemito. Sarà dipeso dalla protagonista, Paola Corsi, ingabbiata dal manichino che come un avvoltoio le ingombra la spalla destra e qualsiasi movimento, o da un’avventata rilettura della funerea atmosfera che pervade il testo della scrittrice e drammaturga ungherese; resta il fatto, incontrovertibile, e non solo per i nostri insaziabili osceni e blasfemi desideri antinatalizi, che il dolore, la desolazione, il nichilismo e l’abbandono profondi a cui i due protagonisti, il ladro maldestro e la prostituta ormai invecchiata, sono costretti a convertirsi, dal palco del Cantiere Florida di Firenze, dove la rappresentazione è andata in scena, non vengono fuori, rimanendo, protetti e ovattati, in quel guscio che non sarebbe potuto essere un esempio di danza e non ha saputo diventare una dimostrazione attoriale. Bisogna fare molta attenzione al nuovo intendimento della danza, che da sola, a detta delle numerose rappresentazioni, sembra non possa più esistere; la tendenza, da qualche anno, è quella di assegnarle, necessariamente, parole senza però che queste riescano a compensare il vuoto lasciato dall’assenza del movimento costretto a farsi da parte per trasformare il balletto in una dimostrazione teatrale. Oltre a Dio quel che è di Dio, sarà opportuno che alla Danza si lasci quel che dalla Danza nasce e, conseguentemente, è giusto che con lei muoia. Prima di ieri sera, al Florida, Paola Corsi non l’avevamo mai vista all’opera; dando un’occhiata al suo curriculum, non ci permettiamo, nemmen con il pensiero, di dubitare della sua facoltà danzanti, non solo perché nasce nella scuola di quella divinità che risponde al nome di Pina Bausch, ma anche e soprattutto per quella serie, innumerevole, di prestigiose collaborazioni che può esibire, a trofeo, nel suo palmares. I trofei del passato, però, continuano a risplendere solo se non ci si permette il lusso di rielaborarli e rimetterli in gioco; così, i giudizi con lode delle stagioni trascorse devono nuovamente sottoporsi alla ghigliottina dei nuovi censori, che non è detto che mostrino clemenza solo per censo tramandato. Il senso di agonizzante e truce solitudine che avrebbe dovuto pervadere l’intera rappresentazione, così come la Kristof ebbe a metter in scena negli anni ’70 con La chiave dell’ascensore e L’ultimo cliente, entrambi contenuti ne L’ora grigia, resta fuori dal palcoscenico, assorbito dal senso di gratitudine e festeggiamento che hanno accompagnato l’esibizione di Paola Corsi. Ma la Kristof è solo un riferimento; l’idea, di Teatri d’Imbarco, Versilia Danza e Lavoratorio è quello di descrivere e delineare il profilo della solitudine femminile al di là, prima e oltre, ogni perverso accadimento. Attraverso una serie di maldestre e sconclusionate riflessioni, nelle quali, proprio come la Kristof, sovente si elidono, senza sottinderli, predicati verbali e complementi oggetti. Riflessioni che tracimano nell'ilarità, con parecchia parsimonia, e che rifuggono così comunque dal dramma esistenziale di questa generazione, affettta e afflitta dalla solitudine di massa. Anche così, quell’uomo (in)visibile, ma invadentemente presente che occupa con la protagonista la scena, non è mai una consolazione, né un punto di forza. Le tre regole del Solitario sono sempre state – e così resteranno – le stesse: giocare felici di farlo da soli, vietato barare e non avere ma il desiderio di poter (con)dividere con qualcuno il vuoto attorno a noi.

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