FIRENZE. Con l’inclemenza del tempo ci si possono solo sottoscrivere patti; di non aggressione, naturalmente, altrimenti, si finisce malissimo. Carlotta Sagna, Mauro Paccagnella e Alessandro Bernardeschi ricordano perfettamente la loro stagione migliore, quella colorata di verde, o di azzurro, se preferite, quella nella quale, piena di propositi, speranze, progetti, illusioni, non si teme nulla e nessuno. E quando il tempo, inesorabile, scandisce stagioni in successione, l’unica possibilità che abbiamo – non solo i tre danzattori, ma tutti noi, al di là della nobiltà dei nostri trascorsi giovanili – è quella di ricordare, con la giusta dose di nostalgia e mettere in comunione le nostre esperienze. Così si generano i passaggi, così si compie la Storia. Al Cantiere Florida di Firenze, i tre abili e ancora agili veterani hanno messo in scena, su un palco dove ancora riposavano i fiori gettati loro dal pubblico delle innumerevoli precedenti prestazioni, quelle che ne hanno costellato le carriere nei precedenti quarant’anni, in prima regionale, Ma l’amore mio non muore / l’Epilogo, che è, senza giri di parole, né di movimenti, una delicata, semiseria, dolcissima e importante autoproclamazione, ma senza parlarsi addosso, se non in quegli evitabilissimi tre minuti finali, che nessuno, al Florida, eccezion fatta per gli amici intimissimi, ha capito per quale motivo abbiano deciso di chiudere la rappresentazione. Eravamo già pronti a tributare il giusto e fragoroso battito di mani, quando sullo schermo gigante nel proscenio, sulle note di Amarsi un po’, di Lucio Battisti, alla non più giovanissima Carlotta Sagna si è avvicinato un giovane ancor più di lei longilineo che sembrava volerla rassicurare sul fatto che il suo patrimonio non sarà disperso e che tutto quello che ha fatto, detto, scosso e soprattutto danzato, rimarrà in eterno, probabilmente riletto e messo in discussione dalla danza che verrà e che non potrà mai fare a meno di quella che è stata. Prima di quello struggente e meraviglioso (non) finale, Carlotta (con la maglia della Juve, un po’ datata, visto che sulle spalle ha il numero 33 e il nome di Bernardeschi, uno dei tanti viola transfughi), Mauro (che si è vestito e spogliato a velocità supersonica per indossare abiti e vesta altamente improbabili) e Alessandro (che si è limitato a sorridere dei camaleontismi dei due vecchi amici e a sorreggerli ogni qualvolta i loro fisici non riuscivano a sopportarne sforzi titanici) si sono amaramente divertiti a inanellare parte delle loro performance, supportate e arricchite dal non senso che si sviluppa solo ed esclusivamente nelle menti e nei corpi di chi sa che prendersi sul serio è un colossale controsenso, consapevole che solo il tempo, nel suo scorrere, decreta e/o delegittima ogni nostra azione, al di là dei nostri migliori o peggiori propositi. Lo han fatto intrecciando i corpi, tergendosi la fronte dalle perle del sudore, rincorrendosi, per l’intera rappresentazione, circolarmente, lungo il palcoscenico, letteralmente intasato dai fiori, dalle parrucche, dagli abiti indossati e dismessi, da un tavolino, rettangolare, che spostano alla bisogna, con due sedie e un panchetto, dove si siederanno al trono del conduttore per giocare con le iniziali e le possibili aggregazioni dei nomi; illustri alcuni, irriverenti, altri, improponibili, nella maggior parte delle circostanze. Dando saggi di alta ironia, schernendo la popmusic nostrana, invitando i cuori a cercare la pace, nonostante a ogni fiore corrisponda, puntualmente, una bomba; lo han fatto con passi ineliminabili di danza, quella classica, quella ormai utile solo a fortificare le nuove intuizioni, ma senza i quali il futuro del balletto non potrebbe costituirsi, volteggi e circolazioni aeree che, viste le età, necessitano, immediatamente, di appoggi e ristori. La gravità newtoniana, il sarcasmo alleniano; una miscela di esplosiva gradevolezza, che non è certo finita in coincidenza del termine della rappresentazione, ma che continuerà a sorridere e far sorridere tutti quelli che con questi antichi e soddisfatti mostri sacri dovranno, per forza di cose, fare i conti, senza mai dimenticare l’inclemenza del tempo, il sadismo del tramonto, l’incontenibile fascino della vita.
