FIRENZE. Il lungo doveroso e meritato applauso al termine della rappresentazione è stato il modo migliore per come il pubblico del Cantiere Florida, a Firenze, abbia deciso di dire grazie a Giuliana Musso e alla sua ennesima indagine teatrale. Ma tra i palmi del battito delle mani, i presenti hanno anche e soprattutto voluto esprimere il loro dolore, il loro sconcerto, la loro indicibile aberrazione al cospetto di uno dei crimini che sono, senza enfasi ed esagerazioni, paragonabili alle incommentabili deportazioni nei campi di concentramento: l’abuso sui minori. Compiuti, tra l’altro, da chi, da quel mostro, dovrebbe difenderti, rassicurarti, convincerti che non esiste: il padre. Non nascondiamo di avere più di una difficoltà, stavolta, a recensire Dentro. Una storia vera, se volete perché il disgusto che ci assale, solo a pensarci, ai troppi casi legati a questa brutale e ingiustificabile disumanizzazione, ci porta lontano dalla letteratura e ci trasforma, quasi naturalmente, in naturali sadici giustizieri. Fa bene, Giuliana Musso, teatrante in cerca di verità, a investigare nel buio di quegli angoli dove si annidano violenze e incredulità, confidando nella complicità attoriale di Maria Ariis, mamma incapace di gestire un problema più grande di tutte le forze materni messe insieme; lo fa, bene, molto bene, sul red carpet della vergogna, ai cui lati riposano dodici sedie, sei per parte, che sono tutte le persone che entreranno e usciranno dalla vita di quel fatto di cronaca che, per mancanza di prove, ma innumerevoli sottovalutati indizi, verrà inevitabilmente archiviato. L’attrice e la mamma non si conoscono; si incontrano, chissà se casualmente, in un bar e da lì si dipana la rappresentazione, in dodici capitoli, più uno finale, che saranno l’unica ancora di salvezza, per la piccola abusata e sua madre, per continuare, in qualche modo a vivere. Del resto, come si ricorda nello spettacolo, anche Sigmund Freud, nel 1985, elaborò la Teoria della Seduzione, in virtù della quale arrivò a sentenziare che la nevrosi, in molti, troppi casi, fosse figlia di un terribile trauma, poi represso, di una violenza sessuale subita in età adolescenziale. Lo sgomento e il rifiuto da parte dell’entourage scientifico di tutti i suoi colleghi indusse il padre della psicanalisi a negare, prima, e ritrattare, dopo, quella fantasiosa teoria, divenuta, ahitutti, tristemente nota molti anni dopo e con la quale, la società che si sta polverizzando, fa ormai tristemente i conti da molte stagioni. La storia – vera? falsa? – racconta di una meravigliosa famiglia (ma queste cose avvengono anche nei porcili delle periferie abbandonate da tutti) benestante del profondo nord (latitudini e longitudini sono solo una formalità geografica): padre, madre e tre figli, due maschi e una femmina. Sulla bambina, secondogenita, il padre, un affermato e stimato professionista, esercita attenzioni prima e violenze dopo che trasformano la dolcissima creatura in un animale indomabile, che scatena tutta la propria rabbia nei confronti della madre, a suo dire complice di quelle mostruosità. Il resto, che è lo sviluppo della rappresentazione, è una sequenza di contatti, con psicologi, medici, poliziotti, carabinieri, magistrati, avvocati (le sedie ai lati del palcoscenico, che finiranno, capovolte, al centro della scena), tutti così tristemente abituati a vivere quelle stomachevoli situazioni che finiranno per suggerire, alla madre in cerca di verità e giustizia, più che vendetta, di intentare la strada della rimozione, provando a vivere una nuova identità ed esistenza. Avremmo voglia di scrivere la chiusa di questo reportage invocando pene incontrovertibili, ma ci auto sanzioniamo pensando a quei casi, pochi, ma registrati, nei quali, le probabili attenzioni morbose prima e le violenze dopo di padri nei confronti delle figlie, si sia rivelato solo e soltanto una montatura ricattatoria inscenata dalla moglie lasciata che utilizza la prole e la loro innocenza per crocifiggere il suo ex. Anche in questi casi avremmo voglia di invocare pene incontrovertibili: perché in dubio, pro reo. Ma solo in dubio.
