FIRENZE. Una musica barocca, la Sarabanda e a suonarla non potevano che esserci tre ronconiani, anzi quattro. Una sinfonia così calibrata che l’omonima sonata è diventata un saggio teatrale, al quale chiunque aspiri a diventare un attore farebbe meglio andare a vedere (ancora oggi e domani, domenica 26 gennaio, al Teatro La Pergola, a Firenze). L’occasione, per rimirar all’opera questi monumenti, è ghiotta; la partitura dice che sul palco occorra allestire Sarabanda, l’ultimo film di Ingmar Bergman, il sequel di Scene da un matrimonio, trent’anni dopo. Ci vuole un vecchio ricco e avido ormai insensibile a tutto (Renato Carpentieri), cinico, nella sua spietata onestà, con la donna (Alvia Reale) che ha provato ad amarlo e con la quale ha resistito, per ben sedici anni, come marito e con un figlio (Elia Schilton), avuto dalla prima moglie, che ha sostanzialmente odiato da sempre, nonostante gli abbia dato in dote una nuora meravigliosa (morta prematuramente per un tumore) e una straordinaria nipote (la giovanissima Caterina Tieghi, degna, con lode, di affiancare certi mostri sacri). Ad assecondare lo straordinario camaleontismo facciale, mimico, del diaframma e della opulenta deambulazione, una scenografia televisiva, che copre e scopre ambienti familiari, come se si trattasse di una sit tanto in voga in questi anni. La profonda diffidenza di sei lustri precedenti si è trasformata, con il tempo, in odio viscerale; nessuno risparmia nessuno. Mancano solo le forze e un briciolo di self control a trasformare la profonda disistima in violenza; tutto il resto c’è, vissuto e metabolizzato a diverse latitudini. Ma non è la storia in sé a trasformare la rappresentazione, sotto la regia di Roberto Andò, grazie alla traduzione di Renato Zatti e le scene di Gianni Carluccio, in un’opera di profonda consistenza. Ci sono loro, sul palco, a dare a tanto sadico nichilismo il sapore di un’invocazione. Ma nonostante si viaggi sul sicuro, con inaspettate ulteriori implementazioni emozionali, al cospetto di un vecchio immarciscibile Renato Carpentieri, la sua seconda moglie, Alvia Reale, che decide di andare a trovarlo nonostante il matrimonio e i successivi tentativi di riavvicinamento siano state esperienze decisamente fallimentari e quel figlio detestato, Elia Schilton, che non riesce a sopravvivere senza il ricordo, ingombrante e dolorosissimo, della moglie scomparsa, affanni che non fanno che acuire il suo fallimento professionale che trova, a sua volta, nell’asfissiante (dis)educazione della figlia, la peggior cura della sua frustrazione, non avevamo la minima idea di come la minorenne violoncellista potesse incastonarsi in questa desolata triangolazione d’odio e rancore, con affetti ormai ammorbiditi e sedati dal tempo e dalle disillusioni e dall’attesa, salvifica, della morte, tanto temuta quanto invocata. Gli applausi più forti, più fragorosi e che lasciano il sapore più dolce nella bocca degli spettatori, sono tutti dedicati a lei, Caterina Tieghi, la più ronconiana dei quattro, paradossalmente, che entra in scena con il piglio di chi abbia alle spalle tanti anni di lavoro e con la determinazione di chi, a questa prova, come se fosse l’esame per l’ammissione al Conservatorio, tenga particolarmente. Interpretazione maiuscola, sospesa tra l'isterismo generato in lei dall'egosismo del padre e l'inevitabile attaccamento che quelle morbose attenzioni non fanno che generare. Certo, il Teatro, nel frattempo, è diventato Altro, così come le irrisolte e irrisolvibili dinamiche conflittuali familiari, gestite, da parecchio tempo, con molta meno eleganza e con una dose di spropositata spietata cruenza, ma ogni volta che ci imbattiamo in questi meravigliosi prodigi di applicazione, studio, abnegazione e profonda professionalità, non possiamo fare a meno di pensare  e ricordare il monito che Salvador Dalì rivolse ad alcuni suoi studenti: imparate a disegnare e dipingere come i maestri del passato; poi fate quel che volete: sarete sempre rispettati.

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