PISTOIA. La bravura, incommensurabile, di Elena Ghiaurov è inversamente proporzionale alla vecchiezza del testo, che finisce per essere solo e soltanto un fatidico e difficoltosissimo esercizio mnemonico, corroborato dalle interpretazioni degli altri sei attori che compongono il cast e che si adeguano perfettamente e letteralmente, senza nemmeno osare un attimo, né un atomo, alla partitura del regista, Federico Tiezzi, che offre il fianco della sua incontaminabile bravura e altezza al termine della rappresentazione, quando Fedra, morta (?), esausta (?), svilita dal dolore e/o dal rimorso (?), crolla a terra, improvvisamente scalza, e alle sue spalle si alza il proscenio e appare, seppur tutto in ordine, il dietro le quinte del Teatro Manzoni di Pistoia, come se dopo Fedra di Racine, nella fedele traduzione e rilettura del 1677 di Giovanni Raboni, il Teatro finisse di esistere. Assolutamente no, ve lo assicuriamo e non apparteniamo a quella categoria di spettatori (utile ricordare privilegiata, molto privilegiata, che assiste agli spettacoli nelle postazioni migliori senza pagare, perché accreditata) che rifugge il vecchio come se fosse pestilenziale e auspica il nuovo, anche quando sarebbe meglio che fosse stato abortito prima di azzardare di esistere. Però, di questo Teatro, che si autoalimenta, che si ciba di sé stesso e che si specchia costantemente nei propri riverberi e che, soprattutto, al di là di un’ineccepibile ammirazione, non lascia praticamente nulla addosso a chi lo vede, non si sa più che farne, anche se nelle scuole di recitazione i monologhi di Elena Ghiaurov (che alcune volte ha ricordato Mariangela Melato), impreziositi dalla voluttuosità del corpo, dalle declinazioni delle corde vocali, dalla spregiudicatezza degli sguardi e delle movenze di una silhouette decisamente affascinante, sono e saranno sempre oggetto di studio e comprensibile scimmiottamento. E non bastano, per dire che dell’epico tentativo incestuoso si è già scritto e rappresentato tutto, aggiungere, in scena, per dimostrare che si tratta di una nuova visione, due sedie con le quattro zampe di lunghezze differenti e dunque oblique tali da imporre, agli attori, precarie e scomodissime sedute, come nemmeno il neon trasversale che cade lentamente sulla scena, per non parlare della montatura, classica appendice degli ottici o dei minatori di Guerre Stellari, con la quale Teseo (Martino D’Amico) risorge dalle voci e torna al trono per riuscire a non capire, fino al martirio, l’inganno ordito da Fedra, la moglie incestuosa, nei confronti del figlio Ippolito (Alberto Boubakar Malanchino) o della benda alla capitan Uncino di Bruna Rossi (Enone). Ci sarà un motivo, del resto, se oggi pomeriggio, nella replica domenicale, il Manzoni fosse felicemente pieno di ultra settantenni, ai quali è suonato ripetutamente il telefonino, sono arrivati innumerevoli bip di messaggi, hanno rumorosamente scartato caramelle (alla menta, immaginiamo) o, con lo stesso fastidio, preso delle mentine dalle confezioni metalliche. Certo, anche nei Teatri, che continuano a restare aperti grazie ai pensionati, o alle scuole che firmano accordi per portare a prezzi ridotti gli studenti, popolati da quella generazione classicamente hipster, i telefonini restano accesi, ma anche in quelli con la t minuscola, anche quando le platee son piene di ciofani. Ma di questo gradiremmo parlarne in un servizio a parte. È vero, il nostro gusto rappresenta, seppur farcito di presunzione, una sola misera unità, e con tutto il disprezzo e/o il riguardo che decidiamo di riservargli, incide davvero flebilmente sulle scelte delle Direzioni artistiche. Però, con questi spettacoli, è davvero indispensabile, più che augurante, che gli anziani abbonati continuino a godere, se non di ottima, almeno di dignitosa salute, perché altrimenti occorre spolverare l’escamotage che fu adottato negli stadi al tempo del Covid, quando al posto degli spettatori c’erano dei manichini.

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