FIRENZE. La chitarra elettrica sta alla musica come Ernesto Guevara sta alla politica. E visto che il Che è stato il primo, e l’ultimo, a sfidare tutto e tutti, vincendo, tra l’altro, anche la sei corde che svisa, che picchia, che incanta tutto e tutti, vincendo, tra l’altro, è lo strumento che più di ogni altro rappresenta il Rock. Il nostro accostamento con il medico di Rosario non è casuale, visto che Versiliadanza, grazie all’ideazione di Claudia Nuzzaci e Angela Torriani Evangelisti, ha deciso di far debuttare in casa, al Teatro Florida di Firenze, in prima nazionale, Time to Rock, cercando, nell’ottica di omaggiare il potere rivoluzionario di quel sound, il suo controcorrentismo artistico. Il rock che non si allinea, che protesta, che disubbidisce civilmente, che diserta le guerre, è sostanzialmente sorto, vissuto e sepolto negli anni ’70; prima c’era Elvis Presley, dopo, purtroppo quasi tutto, ma in quei tre lustri, da Woodstock alle stagioni degli attentati, la musica ha avuto un doppio effetto di risonanza: acustica, in primis, ma politica, soprattutto, tanto che alcuni dei suoi più illustri rappresentanti hanno subito scomuniche e maledizioni, quelle che sono valse loro l’immortalità generazionale. Ed è su alcune di queste leggendarie canzoni che, su un palco privo di qualsiasi orpello (il rock non ha mai avuto bisogno di lustrini, né tanto meno di distintivi), Riccardo Massai, Sabina Cesaroni, Andrea Dionisi, Valentina Sechi e Luca Tomao, in compagnia delle due sopracitate danzatrici/ideatrici, hanno dato vita a questa opportuna, doverosa, essenziale rivisitazione musicale e fisica di quelle stagioni, con la nostalgia di un’epoca così bella, viva, partecipata, collettiva, cruenta, che pare appartenere alla preistoria, se non fosse che all’orizzonte, molto prossimo alle nostre qualunquistiche e dunque sottovalutate paure, sembrano riaffacciarsi antichi spettri, che potrebbero godere, nella loro eventuale discesa in campo e affermazione, della totale inesistenza di anticorpi, quelli che il Rock iniettò nelle vene dei suoi giovani fruitori e antepose alle ragioni musicali, diventando, in pochissimo tempo, una delle poche e concrete risposte alle derive totalitarie. Ma cosa hanno fatto, al Florida, i sette danzattori per far rivivere quelle atmosfere e su quali brani, tra le centinaia di motivi onomatopeici la rivolta, hanno concentrato le proprie attenzioni? Di certo, non potevano mancare i Pink Floyd, e soprattutto, il loro muro, The Wall; così come sarebbe stato ingiurioso sacrificare Stairway to Heaven, dei Led Zeppelin e sacrilego omettere la chitarra di Jimi Hendrix. E Lou Reed, e Janis Joplin, i Doors, Jefferson Airplane, Peter Gabriel, Sex Pistol non sono forse stati indispensabili in quel meraviglioso corteo lungo circa venti anni per gridare al mondo intero di sognare un altro mondo, dimostrando, scientificamente, come un altro mondo fosse davvero possibile? Ma come celebrarli? Ballando, naturalmente, ma non come si è fatto, parallelamente, sempre in quegli anni, nelle discoteche, ma vivendo la musica nei suoi rivoli più intimi e personali, scegliendo la controriforma, tifando per tutte le cause che non potevano essere che perse, amando, ad esempio, come si credette opportuno fare, senza scegliere i connotati elementari imposti fino a quello scabroso rifiuto, o preferendo la dissimilitudine, adottando la lontananza dai centri di potere. Alle spalle dei sette interpreti, lungo le pareti in pietra dello stabile di via Pisana, alcune immagini che hanno fatto da colonna visiva al sonoro che non aveva bisogno di alcun’altra implicazione, se non i corpi e le anime di quelli che si sono autoproclamati degni fiduciari e testimoni di quel patrimonio. Ma se fu così bello, perché finì tutto? Lo sentenziò, duemilacinquecento anni prima, Eraclito, con il suo celebre panta rei, al quale il Potere costituito aggiunse poche gocce di eroina.
