PRATO. Dopo Terra mia, Pino Daniele, Nero a metà, Vai mo’ e Bella ‘mbriana, cinque capolavori assoluti, l’indimenticabile musicista napoletano partorisce Ferryboat, un album che nessuno ricorda e chi lo ricorda, preferisce dimenticarlo. Così, come del resto, il suo virtuale conterraneo Erri De Luca, dopo Non ora, non qui, Tu, mio, In nome della madre, Il peso della farfalla e I pesci non chiudono gli occhi, cinque libri di incontrollabile ermetismo sintattico e tenerezza, pubblica A schiovere, un saggio commerciale di profonda inutilità. Che relazione c’è con Oscar De Summa e L’infamante accusa di assenza, il suo nuovo spettacolo in scena, in prima nazionale, al Metastasio di Prato (che l’ha prodotto) fino a domenica prossima, 9 marzo? Analoga sensazione, perché dopo La sorella di Gesucristo e Stasera sono in vena, due rappresentazioni di rara violenta bellezza, solo due vero e non cinque, ma solo perché non abbiamo visto tutto De Summa, così come abbiamo ascoltato e letto, tutto Daniele e tutto De Luca, questa cervellotica messinscena sull’inadeguatezza esistenziale esasperata a qualsiasi latitudine e discutibilmente impreziosita da una montatura scenografica accessoria, con sottofondi di free jazz distorto e incomprensibili abbigliamenti, sfugge a qualsiasi contestualizzazione. Anche perché, se avesse voluto denunciare l’inquisizione sociale alla quale ognuno di noi viene, o comunque può venire sottoposto quotidianamente fino a possibili e temibili risvolti giudiziari nei quali si rischia di finire impelagati senza conoscerne il motivo, avrebbe potuto tranquillamente confidare nell’arte attoriale di Valeria Sibona, la rocker che sembra più giovane di quanto non lo sia e che, senza sapere perché, finisce in questo turbine persecutorio. L’accento noir con il quale la rappresentazione esordisce si stempera sistematicamente con il trascorrere del tempo, assumendo, talvolta, buffe angolazioni e situazioni - corroborate dalla performance di Mattia Fabbris e Andrea Macaluso – che ricordano, spudoratamente, il nonsenso della programmazione radiofonica e televisiva di Renzo Arbore, altro genio indiscusso che fino a ora (e vista l’età, confidiamo nell’indiscutibile ferrea legge delle possibilità) non si è lasciato coinvolgere da improvvide tentazioni commerciali mantenendo integro, unico e inviolabile il suo curriculum artistico. L’affratellamento con quel che gira intorno allo spettacolo si consolida ulteriormente quando Lorenzo Guerrieri abbandona gli abiti di anomalo agente Digos, fratello della povera malcapitata e indossa quelli del cronista giudiziario, trasformandosi, naturalmente, nello slang e nelle movenze, in Luca Marinelli formato Non essere cattivo e Lo chiamavano Jeeg Robot. Alla farsa del processo, comunque, la giovane Demi si presenterà, proprio come il suo avvocato, non d’ufficio, ma complice l’accusa, le ha suggerito: casual, ma senza suscitare desideri. E sul banco degli imputati sosterrà la sua colpevolezza, visto che l’innocenza non avrebbe avuto alibi. Il pubblico, però, quello pagante, quello che ha pienato la platea del Metastasio, a Prato, oltre a tributare con numerose ripetute di applausi l’intero staff al termine dello spettacolo, ha giustificato l’euforia finale con una serie di divertenti e divertite risate con le quali ha sovente accompagnato le gag in scena. Ci corre dunque l’obbligo di dubitare delle nostre percezioni e mettere, fortemente, in discussione le nostre conclusioni. Cosa che facciamo sistematicamente, comunque, ma non solo per quella dose, massiccia, di umiltà che muove e deve muovere le nostre recensioni, quanto perché la cosa più pericolosa, e non solo nell’ambito dello spettacolo, è l’assenza del contraddittorio. Già, l’assenza e quell’infamante accusa che rischia di coinvolgerci tutti, anche quando siamo esattamente convinti di negarla.
