PRATO. Ognuno, per esprimersi, adotta il proprio linguaggio e fino a ieri sera eravamo convinti che con quello della magia si potessero produrre effetti mirabolanti, strabilianti, inverosimili, ma non certo resurrezionali, metafisici, di profonda inquietudine. Il siciliano Francesco Scimeni, apprezzato illusionista, mago, mentalista, che deve la sua fortuna, oltre che alla sua indiscutibile e indiscussa bravura, alle felicissime apparizioni televisive ai tempi del conterraneo Pippo dinosauro Baudo, sta cercando, tra non pochi sforzi e parecchi affanni, di metabolizzare la prematura scomparsa della sua compagna, Fiammetta Alessandrini; è successo due anni fa, ma il percorso per rimuovere il lutto, vista tutta la palpabile inquietudine del protagonista, sembra ancora lungo. Strano, perché ieri sera, al Teatro Metastasio di Prato (si replica fino a domenica 13 aprile), il suo spettacolo, Abracadabra, è iniziato sotto i più naturali e prevedibili auspici del puro illusionismo. A tutti gli spettatori, ma proprio tutti, Enrico Castellani e Valeria Raimondi (i registi), in compagnia del claudicante mattatore, hanno distribuito quattro carte ciascuno (tutte diverse, eh) e una volta riempita la platea e spente le luci, il David Copperfield della Trinacria, o il Silvan decisamente meno elegante, se preferite, dal palco ha invitato gli spettatori a eseguire piccoli ed elementari esercizi: strappare a metà le quattro carte (che sono diventate otto mezze), eliminarne una dal mazzo, sovrapporne una o più d’una sul resto e poi isolarne una, con l’invito a custodirla. E dopo circa un’ora, al termine della rappresentazione, le due metà riunite hanno ricomposto proprio la carta originaria e nella busta sigillata con la ceralacca che è rimasta sospesa sul palco, una volta aperta, era custodito un foglio sul quale erano scritte le parole pronunciate dai due spettatori ai quali il caso ha voluto che arrivasse il pallone lanciato, di spalle, da un terzo spettatore. Nel mezzo, però, oltre ad assistere alla vivisezione di Emanuela Villagrossi, the woman in red del Met e al suo incredibile equilibrio orizzontale poggiando solo le spalle sullo schienale di una sedia, pane quotidiano per chiunque si cimenti in sbalorditive prove di magia, lo spettacolo non è stato una saga dell’incredibile, dello spettacolare, del ma come riesce a farlo, ma una preghiera postuma, una poesia d’amore sconfinato e incondizionato, un urlo disperato per non veder svanire, nel nulla e nell’oblio, la compagnia di quella donna che ne ha fatto, inutile dubitarne, un uomo felicissimo. Tutto è ruotato attorno alla parola cancro – facile intuire il male che abbia causato la morte dell’amata Fiammetta – e all’uso, sovente improprio, che tutti, tanto indistintamente quanto distrattamente, ne facciamo, riassunto e catapultato allo scibile come se si trattasse di un granchio di appena otto millimetri, un corpuscolo quasi invisibile, che potrebbe tranquillamente riposare sul ventre di un bambino e solleticarlo, che non starebbe in alcun retino da mare, ma che ha avuto invece la forza, sadica, di strappare alla vita Fiammetta. Ed è sulla polvere magica delle sue ceneri che gli fa arrossire gli occhi e lo sguardo, in quelle passeggiate che lo conducono alla sua lapide, nel cimitero del Verano, a Roma, dove vivevano da molto tempo insieme, che Francesco Scimeni riesce a respirare e vivere la vera magia, che è stata il tempo nel quale Fiammetta gli è stata vicino. Un triste incedere che gli ricorda la medesima camminata che i siciliani non affiliati alla merda sono costretti a fare lambendo i loculi di illustri uomini che hanno, inutilmente, provato a sconfiggere la Mafia. Ma è proprio grazie alla sua magia posticcia, spettacolare, dove, seppur non si veda, il trucco non può non esserci, che il saltimbanco delle meraviglie sta cercando di far risorgere la sua compagna di vita, chiedendole di non lasciarlo mai ai suoi dubbi sepolti e di non abbandonarlo alle sue nuove certezze. A noi, la sorte, aveva dato in dote l’asso di fiori, il cinque di picche, il fante di quadri e la donna di picche; quando abbiamo ricomposto le due metà, la donna di picche è tornata intera, ma senza sorridere: le donne, sulle carte, di qualsiasi seme, non ridono mai.

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