PONTEDERA (PI). La storia scritta da Edmond Rostand non finisce di stupire, soprattutto se a metterci le mani sopra, dentro e portarla altrove, è la genialità di Michele Santeramo, che dopo aver curato il trittico drammaturgico di Marco D’Amore (sempre al Teatro dell’Era di Pontedera) con Sonia Bergamasco (Rossana), Rocco Papaleo (Cristiano) e Silvio Orlando (Cyrano), torna sul palcoscenico pisano (si replica stasera, un’aggiunta giustificata dal tutto esaurito delle serate precedenti) e trasforma l’epica dei tre memorabili personaggi in uno spaccato sociale nel quale il pubblico deve/dovrebbe per forza di cose riconoscersi. Primo perché succede tutto alla luce dei fari della sala che restano accesi, autorizzando i parvenu a continuare a parlare come se fosse normale, ma soprattutto perché Cyrano (Edoardo Leo), di tornare in scena e replicare, per l’ennesima volta, il suo tormento, il suo dolore, il suo amore non ripagato se non per interposta persona, non ne vuol proprio sapere; è stanco, di tutto e di tutti, è stanco soprattutto di rivivere ancora una volta la beffa esistenziale che l’ha voluto brutto, bruttissimo, ma colto, dotto e sensibile, tanto che il suo carisma potrebbe anche soppesare e compensare la disgrazia estetica. La storia De Bergerac (prodotta dal Teatro dell'Era) è arcinota, ma mai prima d’ora s’era nemmeno immaginata, prima che vista, senza il brutto poeta nasuto che si rivela solo un attimo prima di morire. Questa rivoluzione interna però è necessario che qualcuno la spieghi bene, altrimenti, il pubblico che aspetta le pene in versi scritte all’amata Rossana (Anna Foglietta) dal suo Cristiano (Marco Bonini), ma sotto dettatura di Cyrano, rischierebbe di restare frastornato. E non capire. Viste le reazioni collettive al termine della rappresentazione, fatto salvo alcuni spettatori, la maggioranza non ha capito ugualmente, perché l’invito esplicito, quasi istigatorio, fatto in premessa da Michele Santeramo (che resta sul palco a seguire i suoi attori e tutti i suoi rampolli, il pubblico, ai quali chiede, quasi religiosamente, di non recitare) ed esasperato, a ogni piè sospinto, da Edoardo Leo, in scena, di abbandonare la maschera che ci protegge e ci aiuta a sopravvivere, fingendo e trasformando la nostra zona di meschino conforto in felicità, si perde tra gli applausi, le risate e le foto isteriche che buona parte del pubblico vuole farsi dopo con i protagonisti, catapultati alla divinità dalla macchina televisiva. Se è per questo, anche noi, dopo l’invito di Cyrano ad alzarsi e accomodarsi se non fuori, almeno ai lati del Teatro, manifestando così la nostra insoddisfazione, la nostra nostalgia delle cose perdute e la nostra volontà di provare a cambiare il corso della nostra vita, siamo rimasti seduti sulla nostra poltroncina; lo abbiamo fatto solo perché, seppur dilaniati dal senso di totale fallimento, abbiamo pensato di non aver più tempo per metterci all’anima una (ri)partenza e che d’ora in avanti, faremmo bene ad accontentarci di quel poco e opaco che siamo riusciti a mettere in piedi e che, probabilmente, ci consentirà di morire senza stenti. Lo faremo al fianco di manfane (lo slang metropolitano politicamente scorretto è autorizzato dalla componente romana dei tre protagonisti) che non riconosciamo più perché sommerse dalle creme; vicino a bambacioni appesantiti dal tempo e abbrutiti dall’abbigliamento domestico, guardando crescere i nostri figli che non ci somigliano affatto e che non hanno la minima voglia di somigliarci. In soccorso, consolatorio, alla nostra paura e al nostro tragico immobilismo arrivano, salvifiche, le parole di Paolo Conte: è tutto un complesso di cose che fa sì che io mi fermi qui, che Cyrano accenna, pentendosene quasi, prima comunque di abbandonare la sala augurandosi di ricordare dove ha parcheggiato la macchina. Ma perché una rilettura così audace, ambiziosa e stravolgente di un testo già di per sé forte, doloroso e senza orizzonti capaci di placare l’irrequietezza esistenziale, Michele Santeramo la ha messo nel corpo folgorante di divi catodici contemporanei, animati da voci strascicate di borgata e con un abbigliamento trash e trasandato di tre personaggi – professionalmente impeccabili, eh – che sembra abbiano tutta l’intenzione di buttarla in caciara trasformando così riflessioni epocali in grado di mettere in discussione, in una serata di maggio ventilata da arie fredde e insolite, l’intero apparato esistenziale in una fragorosa risata complessiva nella quale, alla luce delle lampade artificiali, possiamo gridare il nostro consenso, riconoscerci in quel che quei tre raccontano e farci riconoscere anche da chi siede molto lontano da noi? Perché i brutti resteranno brutti, ma solo fino a quando il loro conto in banca non lieviterà a sproposito, seppur poeti, santi e navigatori e i belli resteranno belli, godendo e vivendo di luce riflessa fino a quando le loro sagome non si incartapecoriranno e diventeranno inguardabili se non supportati da provviste messe in cantina in tempi non sospetti e le Rossana dovranno continuare a barcamenarsi tra i loro corteggiatori, cercando di individuare quale Cyrano e quale Cristiano s’annidi tra questi. Nel frattempo, un riassunto delle nostre vite, al di là della possibilità di riprodurre in casa lo spettacolo grazie alla semplice individuazione del Qr Code sul foglio di sala, è opportuno che ognuno di noi se lo faccia, ponendoci a corredo almeno una domanda; a nostro rischio e pericolo, però.

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