PRATO. Molto meno del minimo indispensabile. Ma a When the rain stops falling non serve altro: basta un tavolo, allungabile, che accoglierà tutti i protagonisti un attimo prima dell’epilogo, quasi si trattasse di una reunion generazionale, più che familiare, sul quale consumare, a distanza di tempo e di spazio, un piatto di pesce, caduto dal cielo, tra l’altro. Tenere a memoria e collegare tra loro i gradi di parentela che allegano e affiatano quelli degli York e dei Low non è affatto semplice. Andrew Bovell, l’autore australiano del testo, tradotto da Margherita Mauro, dietro il progetto di Lacasdargilla e per la regia di Lisa Ferlazzo Natoli, che spopola da dodici anni in giro per il mondo e che è ora sul palcoscenico del Metastasio di Prato (fino a domani pomeriggio, 23 febbraio), ha affidato alla prosa, alla forza della parola, il districarsi del testo, che rimbalza, in armoniosa altalena e senza alcun contraccolpo, dalla seconda metà del XIX° secolo alla prima del XX°, una leggiadra e disinvolta lettura temporale, seppur nuda e cruda, che ha indotto la giuria dell’Ubu a consegnare, nel 2019, a When the rain stops falling, ben tre statuette come miglior testo straniero.

Certo, tra uno spaccato e il successivo, sul fondo del palco, sul quale scorrono le nubi e il tempo di circa cento anni di storie e vicissitudini, delle quali spesso, alcune piccole e ignobili, quasi sempre costellato dalla pioggia, che dicono finirà, prima o poi, l’albero genealogico che unisce le due famiglie rammenta allo spettatore chi è in scena. Ma non è così importante identificare i soggetti recitanti; non importa capire di chi sia madre la vecchia Gabrielle York (Caterina Carpio) e quale grado parentale la leghi a Henry Low (Emiliano Masala), a sua volta incastrato con la giovane Gabrielle York (Anna Mallamaci), con Gabriel Low (Fortunato Leccese), Gabriel York (Marco Cavalcoli), Andrew Price (Lorenzo Frediani), Elizabeth Perry, signora Low, giovane (Camilla Semino Favro) e vecchia (Tania Garribba) e Joe Ryan (Francesco Villano). Le scene si incastrano l’una nell’altra, ma non certo per dare continuità genealogica alle conversazioni: ogni ritratto fotografa il proprio tempo e il suo spazio e non c’è alcuna necessità di interagire con le precedenti e le successive per vare ragione di esistere. Si capirà tutto quando la pioggia finirà, anche se, contemporaneamente, in Bangladesh, le violente precipitazioni - quelle che creano qualche disagio tanto agli York quanto ai Low -, hanno già causato la morte di oltre 500.000 persone, mattanze cicliche che si ripetono, come ascia di guerra che si abbatte sugli angoli più poveri del mondo, a ritmi generazionali regolari. Ci si muove dagli anni ’80, vissuti e lucidamente ricordati da tutti gli spettatori presenti ieri sera al Met, ad un prossimo futuro del quale si ha sempre meno certezza, con una disinvolta successione di piani sequenza, che arrivano sulla scena e impongono, agli artefici di quella appena consumatasi, di dissolversi lentamente, con un effetto reale che nulla ha da invidiare alle evanescenze cinematografiche. Non lascia nulla, all’animo, la rappresentazione; sono solo finestre che si aprono e chiudono in un determinato momento nella vita di un appartenente alle due famiglie passate sotto la lente di ingrandimento, come se si trattasse di uno studio sociologico sulle abitudini di un capostipite e di quello che è riuscito a tramandare, più o meno scientemente, ai suoi successori, in una sorta di meccanica ripetitività che non sempre denota o vuol denotare un bagaglio culturale protetto e rafforzato. La follia e la pedofilia, che sono le punte più vistose e drammatiche degli York e dei Low hanno ragion d’essere solo e soltanto in relazione allo spaccato generazionale che i due casati presentano agli storici nei loro circa ottant’anni passati al setaccio; si ripetono usanze, modi di dire, espressioni verbali con l’inconsapevolezza di essere, probabilmente, invischiati in un invisibile e indomabile meccanismo generazionale che si riproduce ben al di là e molto oltre le singole volontà conservative. C’è la pioggia, incessante, anche di dannunziana memoria, perché ascolta e osserva tutto, che scandisce l’inesorabile trascorrere del tempo, accelerato quest’ultimo da un susseguirsi di eventi e catastrofi che offrono la possibilità di osservare, criticamente e cinicamente, quello che abbiamo avuto la sorte e il difetto di vivere: dalla Primavera di Dubcek al declino dell’impero americano. Sotto i nostri occhi, spettatori inermi e inerti che ci dobbiamo accontentare di scrivere a mala pena la nostra, di storia.

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