di Simona Priami
UN HORROR repellente e disturbante, ricco di suspense e azione, ma soprattutto ricco di messaggi e significati che emergono a sorpresa dalla spettacolarità delle scene che si susseguono a ritmo vorticoso. Questo, in sintesi, l’ultimo Alien, che porta la firma di Fede Álvarez, regista uruguaiano, ma anche produttore e sceneggiatore, riconosciuto ormai da tempo dalla critica per La casa e Millennium – Quello che non uccide. In una colonia mineraria che fagocita materiale umano, senza pietà, dove i lavoratori soccombono senza possibilità di riscatto e non esistono diritti e associazioni sindacali, un gruppo di giovani determinati a evitare di morire come i loro genitori, soffocati dal lavoro e con i polmoni chiusi, decidono di fuggire. L’atmosfera soffocante e cinerea della colonia viene perfettamente ricostruita; ne emerge un senso di asfissia che mette in evidenza lo sfruttamento dei lavoratori da parte del sistema asettico e impietoso, una grigia pioggia accentua il senso di disperazione, facendo rivivere l’atmosfera dell’Inferno dantesco. L’orfana geniale e coraggiosa Rain (Cailee Spaeny) e il difettoso fratello sintetico Andy (David Jonsson) vivono in questo apocalittico mondo di sofferenza che ricorda tanta letteratura, da Oliver Twist di Charles Dickens, a Rosso Malpelo di Giovanni Verga; Andy, protetto dalla determinata Rain, appena rimane solo, subisce bullismo e angherie proprio per il suo essere un androide difettoso, in questo caso però dolce e fragile; nelle condizioni più disperate sono quasi sempre i diversi a subire maggiormente. I due si ritroveranno nella roulotte dove il gruppo Tyler, Kay, Bjorn e Navarro ha pianificato la fuga, i ventenni hanno bisogno di loro due, soprattutto hanno bisogno di Andy che ha potere particolari. Hanno avvistato una stazione spaziale fluttuante alla deriva, sembra abbandonata e decidono di dirigersi verso questa, hanno bisogno di materiale e carburante; durante il rocambolesco viaggio, i giovani affiatati e in abbigliamento militare, riescono a vedere il sole, la luce, una speranza che emoziona i viaggiatori da anni immersi nella colonia oscura. La stazione spaziale è abitata da inquietanti xenomorfi, aggressivi, violenti predatori, non vedenti, ma sensibilissimi al calore e ai rumori, capaci di percepire perciò un aumento del calore del corpo umano causato da paura o forti emozioni. I giovani, arrivati nella stazione, dalla prima perlustrazione, dovranno affrontare i terribili mostri che appaiono dal nulla, dal buio, dall’acqua e aggrediscono velocissimi, pronti a riprodursi, sfruttando il corpo della vittima. Si susseguono sequenze da spezzare il fiato in un thriller horror misterioso e ricco di colpi di scena, presenti tutti i temi classici della fantascienza, l’intelligenza artificiale, il mostro, l’alieno che attende nell’ombra, sbava, perde acido dalle ferite, che appare e scompare, sempre presente nei nostri lati più profondi, la disumanizzazione dell’eccesso della scienza, l’avidità umana. Romulus è il nome della parte principale della stazione fluttuante; qui si alternano laboratori, gallerie, armi e, di grandissimo effetto, la parte dell’ascensore e i giochi di assenza e presenza di forza di gravità. Remus è la parte minore, più asettica e tecnologica. Continua la tradizionale scelta dei nomi tratti dalla storia antica e dalla mitologia; Romolo e Remo i mitologici fondatori di Roma, allattati dalla lupa. Un film che tiene fino alla fine con effetti speciali mozzafiato e spettacolari, una costante atmosfera buia e tesa, una colonna sonora eccellente e coinvolgente. La protagonista, Cailee Spaeny, che spesso ricorda la stupenda Sigourney Weaver, tiene bene una parte difficile, con un finale inaspettato, veramente terrificante.
SIAMO ONESTI: quando si ha la facoltà di assoldare, nel cast, Pierfrancesco Favino (Cammello) e Toni Servillo (Daytona), alla storia, per completarsi, mancano pochi dettagli. Perché loro due, insieme a pochi altri eletti, rappresentano, senza alcun rischio di venir contraddetti, il meglio attoriale maschile in circolazione. I due ex galeotti, infatti (al primo hanno diagnosticato il cancro: le chemio gli han tolto anche l’ultimo capello; il secondo è vecchio e sembra avere più di un problema con la senilità), un tempo nemici giurati nel mondo di mezzo, che finiscono impelagati, loro malgrado, in una caccia all’uomo della quale non sono lontanamente responsabili, innalzano, decisamente, l’asticella sul giudizio di Adagio, l’ultimo film di Stefano Sollima, che dopo le esperienze statunitensi torna nella sua Roma per chiudere il cerchio cinematografico aperto più di dieci anni fa con A.C.A.B. e intervallato dalle fortunatissime serie televisive Romanzo Criminale e Gomorra. La Capitale che brucia all’orizzonte, in un’estate contrassegnata da un caldo insopportabile e che manda spesso in tilt, durante le ore della notte, le centraline elettriche, è la solita terra di nessuno: politici viziosi con i ragazzini e la cocaina, carabinieri/sceriffi sensibili più alle mazzette che alla giustizia e tutti quelli che hanno dato vita alle giornate di sangue e morte della prima ondata criminale, quella degli anni ’70 e ’80, quella tristemente battezzata dalla logica della banda della Magliana. È un’altra storia di malavita, che attecchisce con nuovi gendarmi corrotti, falchi della Benemerita inesorabilmente attratti dai soldi, anziché, come giurato, dalla rettitudine, che si servono, a loro volta, di vecchi e malconci delinquenti, in una macedonia criminale dove il giovane protagonista, Gianmarco Franchini (Manuel) l’infiltrato ricattato al festino privato, che affida al Rap la sua educazione, sarà l’unico sopravvissuto di un’inevitabile mattanza. Il film, beninteso, è perfetto da qualsiasi angolazione lo si metta sotto la lente d’ingrandimento, anche grazie ad altri interessanti dettagli: Valerio Mastandrea (Polniuman), l’altro bandito, rimasto cieco, i tre disgustosi carabinieri, Adriano Giannini, Francesco Di Leva e Lorenzo Adorni e la moglie der Cammello, Silvia Salvatori, che decide di riaccogliere nella propria abitazione, mossa più da compassione che speranza, il marito che ha trascorso buona parte della sua vita in carcere. E lo è anche perché Stefano Sollima, anziché frequentare corsi di cinematografia, ha fatto tesoro di tutte le volte che il padre, Sergio, lo ha portato con sé sui set a imparare il mestiere del papà. Ma senza la magistrale trasfigurazione da malato terminale di Pierfrancesco Favino e l’esemplare falsa demenza di Toni Servillo, questo film passerebbe, e probabilmente passerà, tranquillamente in cavalleria, senza che nessuno si senta, dopo averlo visto, rinfrancato, soddisfatto, provocato, scosso. Attorno a questi due attori, che ribadiamo, vantano un’universale e poliedrica professionalità, la cinematografia nazionale sembra stia costruendo se non le sue fortune, almeno la scorta di viveri per sopravvivere. Un romanzo criminale natalizio, ci verrebbe fatta di pensare, che presto, viste le produzioni Sky e Netflix, vedremo prestissimo già sui piccoli schermi, dove tutti i cattivi e gli ex cattivi fanno la fine che avrebbero dovuto fare molto tempo prima, e dove quelle cuffiette, dalle quali si propaga la falsa dottrina rappettara, che saranno costate ‘n botto, passano, regalate, dalle orecchie di chi proverà a farsi una vita nuova a quelle di chi, con molta probabilità, erediterà il posto del padre.
di Simona Priami
LA TRAMA, semplice e lineare, mette in primo piano una profonda e particolare storia d’amore descritta con eleganza dal grande regista, sceneggiatore e produttore finlandese Aki Kaurismaki; Ansa e Holappa, due poveri proletari più volte licenziati, si incontrano e si guardano in un locale con illuminazioni arrangiate, presentatrice attempata, dove si canta e ci si improvvisa cantanti, il vecchio karaoke. Successivamente, il destino rema contro i due innamorati: un amore di sguardi e poche parole, in cui si incontrano per poi perdersi più volte. Kaurismaki mostra una realtà fatta di duro lavoro, alienante e umiliante, ripetitivo e pericoloso, fatto di contratti che sfruttano al massimo i lavoratori, controllati e sottopagati, un mondo difficile descritto nei minimi dettagli, tanto da essere ironico e inimmaginabile. Nell’universo del regista, ovattato e lento, l’esterno si manifesta solo attraverso vecchie radio (con Kaurismaki niente TV, solo cinema e radio) che parlano ininterrottamente della guerra in Ucraina. Anche con Foglie al vento, il regista finlandese conferma il suo perfezionismo nelle immagini simmetriche; ogni inquadratura è estremamente espressiva e minimalista, un film puro, limpido, delicato, perfettamente costruito, dolce e tenero, che mostra anime povere inquadrate spesso accanto, in abitazioni estremamente modeste, con arredi semplici, ma con perfetta armonia cromatica; tutto è ridotto all’essenziale. Le due anime si perdono, ma si ritroveranno: dove? Davanti al cinema, come se questo fosse la speranza nel vuoto e nel buio, l’amore in un mondo difficile, l’ancora di salvezza nell’incomunicabilità e nel silenzio hopperiano. Numerosi i temi importanti trattati anche se non direttamente: l’alcolismo per non sentire la solitudine, l’umanità dei non abbienti, la loro grande dignità e la loro forte solidarietà. Bellissima la scena in cui le colleghe difendono la protagonista, si licenziano come protesta, si ribellano a un sistema offensivo, alienante e assurdo, poi si capiscono e si salutano con un semplice sguardo. Foglie al vento ricorda il grande maestro Charlie Chaplin, intravisto nei numerosi e bellissimi manifesti che addobbano le scabre pareti degli ambienti interni, ma anche gli esterni, spesso echeggiato ma soprattutto ricordato per la sua capacità di amare e mettere in mostra la forza degli umili.
di Simona Priami
LA VERITA' secondo Maureen K è un film francese del 2022 diretto da Jean-Paul Salomé, da poco uscito nei nostri schermi. Protagonista è la straordinaria e versatile Isabelle Huppert, carismatica e talentuosa come sempre. Si tratta di un thriller politico dal ritmo incalzante, di indagine sociale e impegno civile con profonda riflessione sulla disparità di generi. Il regista ricostruisce fedelmente un avvenimento degli anni 2012 – 2018, una storia già raccontata nel libro La Syndicaliste di Caroline Michel-Aguirre. Maureen Kearney è la rappresentante sindacale di Arena, una multinazionale francese nel settore del nucleare. Il nuovo dirigente sta stringendo un accordo segreto con la Cina; la conseguenza sarebbe la perdita di cinquantamila posti di lavoro. Il precedente dirigente era una donna forte e combattiva ma, secondo il solito luogo comune, non adatta in quel momento. Maureen lotta con enorme coraggio, determinazione, meticolosità, forza e passione per dimostrare e far uscire allo scoperto l’accordo scandaloso e poter salvare così il lavoro di numerose operaie e operai. Per questo viene seguita e minacciata, poi subisce violenza, torture e umiliazioni in casa sua; la sindacalista dovrà successivamente difendersi dall’accusa di aver inventato tutto, anche se, vista una sua precedente caduta che aveva compromesso una spalla, non avrebbe mai potuto mettere in scena una tale finzione. Il regista che aveva già lavorato con la Huppert ne La padrina, come prima scena mostra l’atto violenza, per poi ricostruire i precedenti avvenimenti con un flashback; lo stupro ai danni della protagonista è un drammatico tema su cui ruota tutta la complessa vicenda, il fulcro del susseguirsi delle azioni e del difficile sviluppo psicologico della protagonista. Maureen è circondata da una famiglia unita e un marito che la adora, apprezza il suo coraggio e la sua determinazione. Il film è centrato principalmente sul personaggio principale che Isabelle Huppert, fredda, razionale, forte e femminile, interpreta magistralmente con un look appariscente, capelli biondi con perfetto chignon, tacchi a spillo, occhiali grandi, orecchini vistosi, immancabile il rossetto rosso che riesce a darsi nei momenti più impensabili; un abbigliamento con evidenti ritocchi colorati che costituisce una corazza femminile che la sindacalista sa usare perfettamente per combattere e difendersi da un mondo maschilista fatto di oscure trame politiche e interessi economici; solo in casa, ogni tanto, si rilassa e abbandona i suoi amati accessori. L’attrice riesce a far percepire perfettamente la sensazione di umiliazione, lo stress emotivo, la frustrazione che una donna in carriera che lottava per i diritti dei lavoratori deve aver subito. Film informativo e ricostruzione fedele di un avvenimento con accurato lavoro di ricerca, fondamentale come sempre la recitazione della Huppert, una trama che tiene alta l’attenzione per tutto il tempo e nello stesso tempo riesce a far conoscere e rendere nota una vicenda oscura a molti.
di Adriana Casalegno
VIVIDI scivolano i disegni di Gianluigi Toccafondo, accompagnati dalle voci carezzevoli di due giovani genitori che spiegano alla figlia, e a noi, da quale desiderio è nata e dove è stata portata per sfuggire ai mostri dei mondi cattivi. Il mistero della nascita e della protezione ci avvolge con colori e forme di mare, di terra. La favola, L’invenzione della neve - per la regia di Vittorio Moroni - si interrompe e siamo nella macchina di Carmen, abitata da palloncini vaganti, animali gonfiati. Con lei resteremo. La ascoltiamo cantare; la seguiamo mentre entra in una casa a picco sul mare; impariamo che vuole restare lì per aspettare la figlia Giada mentre il compagno, che arriva successivamente, le chiede di andarsene, sicuro che sempre distrugge; sentiamo la sua offesa, la sua ferita di aver perso tutto, tutto le è stato tolto per un passato di dipendenze, anche la figlia che può vedere solo un sabato ogni quindici giorni. In quella casa si era dipanata la loro storia, una volta disegnata sul muro. Carmen, la tigre tatuata sulla schiena, si muove aggredendo tutto il mondo che la separa da Giada: la nuova compagna del marito, l'assistente sociale e, felino sinuoso, sa anche sedurre. Accanto a Carmen, la bravissima Elena Gigliotti, pian piano conosciamo il compagno che ha verniciato di bianco i disegni, i ricordi, per andare avanti, la sorella che l'abbraccia avvolgendo una parte di sé non vissuta, l'assistente sociale che ė una madre adottiva. Tutti hanno dolorose parti mancanti. Qui l'eco della frattura tra il mondo umano sociale e la dimensione istintiva. Il desiderio, la paura, la minaccia, restano, incompatibili, forse finché non si vedono. Ritorna la favola iniziale. I fiocchi di neve cadono sugli alberi, sul mare, sotto un cielo azzurro, leggeri possono alludere ad altre possibilità.
di Simona Priami
PATRICE LECONTE mette in scena Maigret, con uno straordinario Gérard Depardieu e un cast di elevato livello. Il famoso commissario è stato interpretato nella storia da eccellenti attori, con magistrali recitazioni; da Pierre Renoir, Jean Gabin, Bruno Cremer al nostro Gino Cervi. Si tratta un personaggio letterario nato dalla penna di Georges Simenon, caratterizzato da acuta intelligenza ed elevatissimo spessore, impegnato nel cercare di risolvere casi complessi, caratterizzati da intrighi inimmaginabili e da personaggi dalla psicologia profonda, ma sempre ben analizzata. Come tutti i romanzi di Georges Simenon, siamo davanti a un caso umano a cui il commissario si sente particolarmente vicino e l’interpretazione di Depardieu non solo ci sta perfettamente, ma non è da meno delle precedenti. Il film è tratto dal romanzo Maigret e la ragazza morta e la scena si apre con il celeberrimo commissario in visita dal medico, che lo trova stanco, affaticato e demotivato; ha lavorato tanto, ha dato tanto, comincia a essere vecchio, proprio come lo stesso Depardieu e deve essere privato, per motivi di salute, ironia della sorte, della sua pipa, quella che lo caratterizzava e che lo aiutava in tutte le sue numerose indagini. Un incipit perciò con una sottile ironia, caratteristica che si ripresenta durante tutto il film.
di Simona Priami
ALDO BRAIBANTI intellettuale, filosofo, scrittore, amante del teatro, poeta, partigiano e mirmecologo cioè studioso delle formiche, nel 1968 venne accusato e condannato per plagio; subì il carcere, ma il tutto era solo un modo per coprire la vera accusa, cioè l’omosessualità; si tratta di una pagina buia della giustizia italiana, l’Italia degli anni sessanta si dimostra così una società ancora chiusa e bigotta, ottusa che non riesce ad accettare il diverso, una società e una mentalità che portarono alla reclusione un innocente, una personalità importante nel panorama culturale e sociale italiano. Come afferma il regista pluripremiato Gianni Amelio, ormai riconosciuto e amato da pubblico e critica: il film è soprattutto una storia d’amore tra un uomo e un ragazzo. Nella solitaria e luminosa campagna emiliana, in un casolare isolato, Aldo sta allestendo un innovativo laboratorio teatrale. Qui lavora a contatto con giovani e insegna la passione per l’arte e il teatro, ed è proprio qui che conoscerà Ettore, dolce ragazzo maggiorenne, amante dell’arte, ma costretto da una famiglia chiusa e severa a studiare medicina. La storia d’amore tra i due si sposta successivamente nella capitale; qui sembrano felici, ma il giovane, considerato malato, sarà rinchiuso a forza dalla famiglia in un ospedale psichiatrico dove subirà trattamenti invasivi, come l’elettroshock.
di Niccolò Mencucci
RITORNA NELLE SALE un grande film che, per quanto tempo passi, è sempre un piacere rivederlo. Uscito per la prima volta in Italia nel 2010, Porco Rosso di Hayao Mihazaki è sempre sul pezzo. Certo, passano gli anni, la tecnologia si fa sempre più sofisticata, le immagini diventano sempre più digitali e computerizzate, ma Porco Rosso ti tiene incollato allo schermo per tutti i novantadue minuti, e senza mai cadere di stile, con una storia solare, ma malinconica, energica, ma dai tempi lunghi, priva di sentimentalismi, ma emozionante, divertente, ma anche seria. Non a caso la casa cinematografica, Lucky Red, ripropone nelle sale piccoli capolavori come questi: per farci ricordare che anche il cinema d’animazione sa elevarsi al pari di quello live-action (con attori in carne d’ossa). Ma chi è Porco Rosso? Nato Marco Pagot, è un pilota dell’aviazione italiana che, per un inspiegabile maleficio alla fine della Prima Guerra Mondiale, si è ritrovato di punto in bianco con le fattezze di un porco. A causa del sortilegio, non ha più modo di coltivare alcuna relazione umana, nemmeno amorosa, come quella che aveva con l’amica d’infanzia Gina, ora proprietaria di un albergo su un’isoletta dell’Adriatico.
di Simona Priami
UN LAVORO eccellente, Hill of vision, ricco, ricercato e soprattutto coinvolgente. Lo spettatore deve essere pronto a commuoversi davanti a questo biopic di Roberto Faenza che emoziona, fa sorridere, piangere, tocca nel profondo, ma fa anche riflettere perché i messaggi e gli insegnamenti sono numerosi, tra questi il più immediato: nelle avversità si sviluppa l’ingegno. Il film analizza la vita di Mario Capecchi, italo-americano che da un’infanzia difficilissima arriva a conquistare il Nobel per la medicina, nel 2007. La storia viene raccontata dal bambino (Edward Holcroft) in prima persona e inizia con tono ironico e delicato. La vicenda si svolge durante la seconda guerra mondiale: la prima parte in Italia, la seconda in America. Non si accenna all’ideologia o alla politica, si sente solo come sottofondo una radio come strumento del consenso. Mario è figlio di genitori non sposati, padre convinto fascista e Lucy, la madre, americana antifascista. La loro relazione dura pochissimo anche a causa dei grandi contrasti ideologici e dell’estrema diversità di indole e vedute; lui conservatore e impegnato sostenitore del regime, lei dolce e distratta, sensibile e pronta a contrastare la dittatura.
di Simona Priami
INIZIA IN media res questa delicata storia. È già tutto successo o sta succedendo. Quell’equilibrio, quella perfetta sintonia con la terra, costante da generazioni, si sta frantumando. Alcarràs è un paesino della Catalogna dove, nella lentezza e ritualità, vivono i Solé, una famiglia unita e patriarcale, persone semplici e felici; i loro gesti sembrano lontani, i loro sguardi sembrano ignorare il presente globalizzato e tecnologico; il lavoro dei campi e il loro frutteto determinano i tempi e i ritmi della loro esistenza; il rapporto con la terra rappresenta perciò la loro vita: abbandonarlo sarebbe morire. Un universo arcaico, un villaggio statico, atemporale, lontano dalla nostra realtà, un mondo autosufficiente che sembra non aver bisogno di nulla. La famiglia non si risparmia in giornate allegre e spensierate, pranzi e scherzi nella rudimentale piscina, come in ore dedicate ai lavori domestici, forse inutili e comunque agli antipodi rispetto alla frenesia dei tempi moderni. Il rapporto intenso con la natura si percepisce in modo particolare nei bambini, spensierati che vivono e giocano con oggetti rudimentali o elementi del paesaggio, si tratta comunque di un panismo a cui partecipano tutti. I Solé sono una famiglia patriarcale, sicuramente, ma le donne sono attive, brillanti, vivaci, partecipano al lavoro, sicuramente non sono succubi, né sottomesse.
di Simona Priami
ALL’ARTE si deve la vita una frase incisiva che la protagonista di questo originale e femminile lungometraggio, ripete spesso. Si tratta di un lavoro diviso in poetiche sequenze dai titoli enigmatici, ma profondi, capaci di ritmare una trama che si sviluppa soprattutto attraverso le immagini, lo spettatore si immerge nel fantastico mondo onirico di questa toccante storia dalle sfumature fiabesche. Siamo in estate in un quartiere asettico e poco frequentato. Una madre (Alba Rohrwacher), mimo e artista di strada, vive con la figlia (Maayane Conti) e il cane Marcel. Per quest’ultimo la mamma ha un amore eccessivo, un rapporto quasi idilliaco, l’attrice viene inquadrata in primo piano mentre accudisce al cucciolo come se fosse un neonato; la figlia invece viene totalmente trascurata, ne soffre, cerca di attirare le attenzioni su di sé, anche suonando il sassofono, ma inutilmente. Una madre totalmente anaffetiva verso la bambina, una donna centrata su di sé e sul suo lavoro, sofferente, spesso triste, depressa, che esegue rituali magici, in cerca di arcani misteri, rivelazioni profonde, risposte che nessuno le ha mai dato. In casa sembra sia la piccola ad occuparsi di tutto, ma anche lei stessa assume a volte aspetti quasi demoniaci, una Coraline che non sorride mai, raramente esterna le sue sofferenze, non riesce a entrare in sintonia, né ad avere un dialogo con i coetanei; eccede solo in un gesto ribelle, violento, estremo e vendicativo che cambierà il corso delle vicende. Madre e figlia partiranno verso il festival degli artisti di strada.
di Luna Badawi
PRATO. Nulla è di per sé veleno, tutto è di per sé veleno, è la dose che fa il veleno. Diceva Paracelso. Ed aveva del tutto ragione. Ma, quando la complicità diventa veleno? In una società paradossale, dove la corruzione si normalizza, l’intelletto è sottovalutato e utilizzato per fini malvagi, ma soprattutto in un mondo dove pervade l’indifferenza e nessuno si schiera per la giustizia. Si è complici con l’azione e senza. Si è complici con la consapevolezza e l’acquiescenza. Si è complici con l’intelletto e con l’ignoranza. Si è complici con la parola e con il silenzio, con l’indifferenza e con il riguardo. Si è sempre complici quando si è a conoscenza. E sì, è veleno quando si è complici, egoisti e impassibili di fronte al bene altrui. Chissà se siamo complici anche con la morte. Si chiede Cop, uno dei protagonisti di quest’opera distopica, che parla di una società ammalata senza speranza di guarigione, dove tutti sono coinvolti e nessuno è disposto ad agire con morale. Lo stesso Cop, unico inseguitore della giustizia, cede alla complicità. Il poliziotto che segue senza sosta Boss, un anziano capomafia, che ha alle sue dipendenze Doc, uno scienziato famoso che la crisi economica ha buttato sul lastrico e che a grazie alle circostanze è riuscito a costruire una macchina per dissolvere i cadaveri.
di Simona Priami
UNA COMMEDIA satirica, eccellente, sagace e pungente, quest’ultimo lavoro di Adam McKay, una trama che ci ricorda un problema sociale, ma anche esistenziale: ci soffermiamo sulle attraenti sciocchezze e ignoriamo il problema. Con l’ironia pungente si può dire tutto, anche dimostrare l’inconsistenza della società consumistica attuale e del vuoto di valori che gli gira intorno, come il talento e lo studio che non vengono premiati né riconosciuti, a scapito dell’esaltazione della frivolezza e del linguaggio insensato, di conseguenza la mancanza di solidarietà di una società che dovrebbe lottare per il bene comune. Ci vuole però un’ironia acuta e sottile, mai banale, interpretata in modo eccellente, da un cast stratosferico, capace di andare dritta al punto e lanciare messaggi diretti, terribilmente reali e toccanti. Proprio questi sono gli ingredienti del geniale Don’t Look Up. Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence), talentuosa studentessa laureanda di astronomia, scopre l’esistenza di una cometa, non ancora identificata. Il suo professore, Randall Mindy (Leonardo Di Caprio), esegue dei calcoli successivi e capisce con certezza che la traiettoria dell’asteroide è rivolta verso la terra e la cometa si schianterà sul nostro pianeta sei mesi dopo l’ingegnosa scoperta, con un impatto catastrofico che potrebbe significare l’estinzione della specie umana.
di Elena Bernardini
CHE LE FIABE siano crudeli è un dato scontato. Le raccontiamo (raccontavamo…) ai bambini, magari prima di dormire, ma non viene nemmeno da pensare a ciò che viene narrato, evidentemente. Forse perché il fiabesco (topos magico dove qualsiasi cosa può accadere) aiuta l’iniziazione alla vita adulta edulcorando, con la vittoria dell’eroe, le grane dell’esistenza. Quando poi si parla di fiabe popolari la crudeltà è ancora più pressante. Un gruppo di amici (nel tempo presente, nelle campagne della Tuscia), a fine battuta di caccia, si ritrovano in trattoria e, durante il pasto, iniziano a ricordare una vicenda tramandata oralmente avvenuta nell’800. Non se ne conosce la vera verità, perché, come sottolinea uno dei commensali, una storia di dieci parole viene poi raccontata con quindici, poi cinquanta, poi cento, e alla fine non si distingue più il fatto in sé da quello frutto della fantasia. Si racconta di Luciano (Gabriele Silli), ubriacone e matto (rientra in paese, guarito, dice lui) dopo un soggiorno curativo a Roma. Figlio del medico del luogo, ha come occupazione quella di dare una mano a un pastore, Severino, costretto a far pascolare le sue pecore in terreni poco favorevoli perché il principe della zona (ma forse i suoi scagnozzi, il principe sembra molto poco interessato alla vita comune) gli impedisce di praticare le sue proprietà.
di Elena Bernardini
LA REALTA’ non mi piace più…, allora la trasfiguro. È questo il punto focale del film di Paolo Sorrentino, È stata la mano di Dio. Opera di formazione in quanto la rappresenta, delinea il destino di Fabietto seguendo il suo percorso artistico e sentimentale in una Napoli inconsueta (baciata da una luce che sembra non sua, ma che in realtà è quella del luogo interiorizzato), mancante dei suoi luoghi comuni, ma affollata dai caratteri che la rendono unica. Manca la solita rappresentazione della città. Napoli, qui, è una città vista attraverso un percorso nei suoi sotterranei reali e culturali e che riesce a esprimere sublimi creatività. La prima parte del film delinea e fa agire magistralmente i caratteri. In una città stranamente immobile la procace (e svitata) zia può incontrare San Gennaro che le dà un passaggio in macchina e le fa incontrare o’munaciello (il grandioso lampadario a terra, nella casa nobiliare in cui avviene l’incontro è una trovata scenica di grande effetto); le riunioni di famiglia sono occasioni impareggiabili per esercitare in positivo tutta l’ironia e tutto il cinismo della tradizione, archetipi comportamentali e culturali che si rivelano essere la vera livella (anche se non palese) per il popolo e l’alta borghesia della città. Fabietto non sa quale sarà la sua strada dopo il liceo.
di Elena Bernardini
The French dispact (2021), il film di Wes Anderson, è un’ode alla stampa libera. Ovvero, a giornalisti che liberamente scelgono di fare indagini sulla vita vera, quella che può essere interessante non solo per i cittadini di Ennui-sur-Blase (città immaginaria, letteralmente Noia sull’Apatia), ma anche ad un pubblico ampio, quello al quale sta a cuore un tipo di approfondimento che porta a compimento l’indagine su uno specifico argomento, costi quello che costi, soprattutto in termini di indipendenza e sarcasmo. Certo, la redazione del giornale che il film racconta non è esattamente quella di una rivista normale: facciamo conto che sia un miscuglio fra una rivista di grafica illustrata e una di indagini sociologiche un po’, come direbbe qualcuno, radical chic. Quello che risulta è una serie di articoli su argomenti vari e socialmente molto rilevanti, con la conduzione anarchica e creativa di ciascun redattore. Si compone di quattro articoli che i giornalisti scrivono per il numero di commemorazione per la morte del direttore della rivista, Arthur Howitzer Jr., che aveva espressamente richiesto che la pubblicazione cessasse alla sua morte, peraltro improvvisa. I redattori si riuniscono per presentare i loro pezzi per la pubblicazione, tenendo sempre presente il motto che campeggia sopra la porta dell’ufficio del direttore: Don’t cry (Non piangere).
di Federico Di Pietro
ROMA. Succede che un uomo e una donna si vedono, si conoscono e si piacciono. Forse si innamorano, forse solo lui ama lei o solo lei ama lui. O forse si vogliono bene e basta. Insomma, non lo sappiamo. Si può capire, si può intuire. Forse il sentimento è reciproco, forse no. Succede che lei è sedotta, coinvolta, circondata. Succede che lei è appena andata sotto scacco. Game over. Gioco finito. Lei è sotto assedio e i rinforzi non sono in vista, non arriveranno. Lui è entrato in gioco fin dalla prima battuta, dalla prima espressione. Forse si capisce già che piega prenderà il loro rapporto. Tre aggettivi: morboso, aggressivo, tossico. Per lui. Tre aggettivi: sola, ingenua, fiduciosa. Per lei. E infine, i dialoghi, le parole, che sono la Polvere. Lui contro di lei, lui sopra di lei, lui addosso a lei. In realtà non sono dialoghi, ma un lento, costante, incessante interrogatorio. Chi hai avuto prima di me? Raccontami nuovamente del fatto, dicevi, stavi fumando alle 3 di notte da sola e un ragazzo ti ha trascinata nel vicolo … continua per favore. Ci sei stata insieme a I.D? Perché non mi hai raccontato di I.D? Pensavi mi incazzassi? Tanto lo sapevo, sei inaffidabile. Le parole sono polvere, piccoli granelli che si accumulano, scena dopo scena, domanda dopo domanda, dubbio dopo dubbio. Lei inizialmente li lascia depositare sopra la loro relazione. Il peso è relativo. Ma i granelli, le richieste, le insinuazioni, aumentano minuto dopo minuto. I granelli iniziano a essere più pesanti del loro rapporto.
di Simona Priami
IL FAMOSO Dune o Ciclo di Dune, romanzo fiume di fantascienza, scritto da Frank Herbert, pubblicato nel 1965, in Italia nel 1973, ebbe a suo tempo numerosissimi riconoscimenti per la sua genialità, fantasia, originalità, contenuto e record di vendite. L’opera influenzò il successivo immaginario fantascientifico, sia per romanzi che per film. Ne fu ipotizzata per gli anni successivi la trasposizione cinematografica, anche se l’impresa risultava insidiosa e rischiosa; nel 1984 ci prova il maestro David Lynch, lavorando solo sulla prima parte della lunga storia; lui stesso definì il suo lavoro non soddisfacente, forse il suo peggior lavoro. Del famoso romanzo è stata anche prodotta una serie di videogiochi e una mini serie televisiva, la trama pertanto risulta estremamente interessante, moderna e accattivante, le difficoltà di transcodificazione rimangono. Nel 2020, aiutato da nuovi effetti speciali, ci prova Denis Villeneuve, famoso regista, riconosciuto tra i migliori dalla critica, già messosi in evidenza nel genere per Blade Runner. In un lontano futuro, per la precisione anno 10191, l’imperatore delle galassie, personaggio assente, ma dal potere indiscusso, figura quasi divina che viene spesso nominata, ma non si mostra mai allo spettatore, muove le pedine a suo piacimento, prende decisioni e impartisce ordini.
di Letizia Lupino
SESTO FIORENTINO (FI). Allucinazione: a) stato morboso in cui ciò che è pura immaginazione viene percepito come realtà; b) errore di valutazione, abbaglio. L'indecisione è palese, gli occhi passano dall'una all'altra frase come un incontro di tennis senza esclusione di colpi. Poi, la pallina cade, come lo sguardo, esattamente al centro, nel vuoto. Ciò che è chiaro è che le due frasi non possono vivere l'una senza l'altra, così com'è chiaro che quello che è andato in scena al Teatro della Limonaia a Sesto Fiorentino sia stata una lucente, limpida, perfetta allucinazione. Uno stato morboso che Dimitri Milopulos è riuscito a farci arrivare con sottile ferocia. Una stagione all'inferno appunto; un tempo che senza orologio e senza coprifuoco non avrebbe avuto confini. Un tendone da circo, il palcoscenico della vita, un velo che cade e che mostra l'uomo, la battaglia, la caduta rovinosa di un angelo. Il colpo è stato forte, i detriti sparsi sul proscenio lo mostrano. Le ali perse, le ferite, il sangue; già così sarebbe un'eloquente fotografia della catastrofe che avremmo vissuto. Arthur Rimbaud parla (nel 1873, 150 anni dopo) attraverso Dimitri Milopulos, usa il suo corpo e la sua tensione per mostrarci lo smarrimento e l'abbaglio, ma allo stesso tempo, la volontà effimera di redimersi, rialzarsi.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Due leggii, un tavolinetto tondo, due mani e un bicchier di vino, un apertura che ha il sapore di assurdo; ci guardiamo intorno, inevitabilmente incuriositi e la scenografia pare voglia farci l'occhiolino occhieggiandoci una promessa. La musica suona le prime battute: siamo al Funaro di Pistoia e sul palco dell’associazione culturale va in scena E noi fra di voi, prodotto da Zauberteatro. Lui, Massimo Grigò, entra, un gigioneggiare pallido e assorto che strappa subito una risata. Promessa che si rafforza. E poi lei, Silvia Guidi, presenza scenica dirompente, vitale, carica elettrica che si sente. Promessa che si conferma. È un passo a due perfettamente calibrato, la fluidità dei corpi e dei movimenti è conciliante, il palco è casa loro e ci spalancano la porta, suadentemente dicendoci di farci avanti e noi lo facciamo, eccome se lo facciamo, senza timidezza e subito il loro teatrale diventa Io, Tu, Noi, Tutti, nell'assolo più potente che ci sia: l'Amore. Un dialogo che è il dialogo del mondo passando da Adriano Celentano, Nada, Don Backy, Charles Aznavour e Mia Martini. Uno scambio di battute rapaci e fugaci che si susseguono senza sosta, spalla complementare l'uno dell'altra. Un racconto senza tempo e senza età che bene si adatta a quel Tutti che adesso siamo diventati. Loro sul palco e noi.
SIAMO nella periferia romana, terra di saccheggi cinematografici, ma non siamo a Tor Bella Monaca, a Corviale, sulla Tiburtina. Siamo da un’altra parte, a Spinaceto, in un quartiere residenziale, con villette a schiera, balconi luminosi, piscine gonfiabili nei giardini, popolato da famiglie scampate e scappate dalla miseria, ma solo quella economica. Sono una comunità di aridi, anaffettivi, scarsamente scolarizzati, con i figli che sembrano usciti da un’idea cartoon di Schulz con la supervisione di Pier Paolo Pasolini. Abbiamo visto Favolacce, su Prime Amazon (al cinema non si può ancora andare; in chiesa, sì, in compenso) terza pellicola dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, e ne siamo usciti con le ossa un po’ malconce. È una strana, calda, caldissima estate metropolitana, resa ancor più anomala dal fatto che i bambini, invece di essere in vacanza, vanno a scuola. È la loro salvezza, in compenso, anche se uno dei loro professori (Lino Musella), accusato di aver, seppur involontariamente, aizzato i suoi alunni alla costruzione di bombe, viene cautelativamente sospeso dalla cattedra.
di Olimpia Capitano
LIVORNO. The Lighthouse, film del 2019, di Robert Eggers, con Willem Dafoe e Robert Pattinson, ha chiuso quest’anno il FIPILI Horror festival. Scelta netta e coraggiosa che rimarca la volontà di consolidare uno dei ruoli assunti dalla rassegna, ossia quello di saper proporre pellicole capaci di trattare il tema della paura in maniera niente affatto banale e senz’altro in modo tanto intimo e profondo quanto inquietante, implicando d’altra parte riflessioni tematiche e stilistiche complesse che, purtroppo, non sono state di frequente ben accolte dal mercato cinematografico. Questo è valso per The Lighthouse così come, d’altro canto, per la proiezione di Samp, del duo Rezza e Mastrella. Stupisce, quindi, ma purtroppo non del tutto, la relativamente scarsa distribuzione del film, che resta una visione complessa e delicata. O meglio, più che essere un’opera difficile in sé, difficoltà e lentezza di fruizione derivano dalla forza di un’immersione totalizzante entro un conflitto formalmente racchiuso nei confini di quanto si vede e delle storie che ne emergono, ma di fatto rappresentativo del fragile equilibrio della mente e dell’uomo nel mondo e nelle relazioni, con gli altri e con sé.
A TEATRO, come al cinema. Emma Dante è la stessa, cazzuta, cazzutissima, regista, con quell’energia, inesplosa, ma che disperde schegge ovunque, di racconto degli ultimi, senza alcuna possibilità di riscatto. Come Le sorelle Macaluso, che abbiamo avuto l’onore e la fortuna di vedere a teatro (Manzoni, Pistoia), qualche anno fa e che abbiamo (ri)visto, l’altra sera, al cinema Lux, sempre a Pistoia, in questa magnifica trasposizione culturale dal palcoscenico alla cinepresa. Con lo stesso, identico, meraviglioso effetto: abbiamo pianto, a dirotto, in platea e così abbiamo fatto nella Sala Plutone, in compagnia di una sola altra spettatrice. Arrivata alle 21,25, a pochi minuti dall’inizio della proiezione, altrimenti, a vedere questo capolavoro di neorealismo, passato per coincidenze mondane dal 77esimo salone veneziano, saremmo stati soli, in compagnia della regista, che non conosciamo personalmente, ma che abbracciamo, oltre ogni ragionevole precauzione da contagio, tutte le volte che pensiamo a lei.
di Alessandro Giovannelli
PISTOIA. I mesi che abbiamo alle spalle sono stati di solitudine profonda. Li abbiamo vissuti chiusi nelle nostre case, lontano dagli altri, dai luoghi nei quali ciascuno era solito trascorrere le proprie serate in cerca di varie forme di nutrimento. Il nutrimento, innanzitutto, dell'anima. Privi, per mesi, di quei momenti di interazione, quasi rituale, che la musica dal vivo incarna. Sabato sera, nella bellissima cornice di Piazza della Sapienza, con la scenografia monumentale del loggiato della Biblioteca Forteguerriana alle loro spalle, Lorenzo Del Pero e Maurizio Geri non hanno rappresentato soltanto una sorta di ripartenza. Il loro è stato, per certi versi, un ben tornati, o un ben ritrovati, rivolto ad amici e conoscenti, o anche soltanto a chi aveva da saziare la propria fame di musica. Un ideale abbraccio, in un tempo ancora caratterizzato dal distanziamento sociale, a rompere definitivamente il giogo della solitudine. Maurizio e Lorenzo non sono stati soltanto i cerimonieri di questo rito. Nei mesi della surreale sospensione che tutti abbiamo vissuto, loro hanno scritto musica. Per noi, sicuramente; forse anche per loro stessi. Sarebbe già stata una risposta formidabile al senso di vuoto che ha pervaso il mondo in quei giorni, sia quello fisico, il luogo nel quale viviamo, che quello interiore di chi affrontava con sgomento una condizione che – diciamocelo, a distanza di alcune settimane dalla conclusione del lockdown – nascondeva più insidie che opportunità.
di Rossana Lo Moro
ROMA. Raccontare i pensieri di questo periodo fa correre il rischio di tirar fuori prevalentemente ansia e preoccupazione per quello che sta succedendo e che potrebbe succedere, ma in questo spazio voglio raccontare il mio bicchiere mezzo pieno. Ebbene, rimanere forzatamente a casa, all'inizio, mi ha fatto piacere; avrei finalmente potuto dedicarmi a tutte quelle attività, casalinghe e non, per le quali non ho mai tempo. Ma poi, pensando che ne avrei avuto molto a disposizione, ho iniziato a rimandare e ogni giorno è diventato più lento. Hanno trovato sempre più spazio e tempo la meditazione, la riflessione e anche la preghiera. Una riflessione, magari un po' scontata, è che siamo stati privati di vivere liberamente un lasso di tempo della nostra vita che ovviamente non ritornerà e la cosa mi dava molto fastidio, soprattutto pensando ai miei figli, adolescenti pieni di impegni, interessi e amicizie da vivere. Poi ho rivisto nella loro nuova quotidianità l'adolescenza mia e dei miei coetanei, quando la parola d'ordine era prima il dovere e poi il piacere, quando l'impegno principe assoluto era lo studio, quando i passatempi erano la lettura o stare con i fratelli e le sorelle a inventare svaghi, quando uscire con gli amici era un evento straordinario che si verificava soltanto dopo aver espletato tutti gli obblighi di studio e casalinghi e soltanto se i genitori davano il consenso.
di Chiara Buratti
ASTI. L’ansia da attrice teatrale non so se l’avete mai provata. È una voce. Una vocina gracchiante che ti soffoca l’orecchio. Ti parla in continuazione, ti fa nascere almeno sette o otto dubbi in contemporanea, ti ripete che in fondo gli altri attori sono più bravi di te, più felici di te, mangiano più sano di te, ricordano tutte le battute a memoria, fanno meglio l’amore e hanno molti più contatti di te, perché in qualsiasi ambiente di lavoro ti trovi, sono i contatti che contano. Nel frattempo questa vocina si diverte a rallentarti la digestione, accelerare i battiti del cuore e farti uscire sulle guance pustole infiammate la mattina in cui credi di avere il provino della vita (che poi capita almeno due/tre volte al mese). L’ansia da attrice teatrale ti prende sia quando non hai lavoro, che quando ne hai troppo. La odi, ma non riesci a farne a meno perché sei talmente abituata alla sua compagnia, che ti sentiresti spogliata, defraudata di una parte di te, se scomparisse. Ebbene sì. Io sono un’attrice ansiosa. Non sono una persona ansiosa. Divento ansiosa solo quando si tratta del mio lavoro. Perché è una scommessa giornaliera, un gioco bellissimo dove spesso non vinci, un mondo dove l’arte e la poesia camminano in parallelo a mille dinamiche diverse e poco artistiche.
di Chiara Marini
PISTOIA. Non so se sono impopolare, ma non ho mai creduto che sarebbe andato tutto bene. Ma tutto bene cosa? Andatelo a dire a quelli cui il virus coronato ha portato via in pochi giorni uno, due o anche tre familiari senza nemmeno concedere il tempo di un’ultima carezza. Un virus spietato, che ha stravolto gli equilibri, ha messo tutti ai domiciliari, ci ha allineati come ‘a livella di decurtisiana memoria. E sono impopolare forse anche se dico che alla fine di tutta questa baraonda, alla fine di tutti questi blocchi, distanze, alla fine di tutti questi morti, poco o nulla ci resterà in eredità. Fratellanza, senso civico, solidarietà; fidatevi: passata la paura, tutto tornerà come prima, o anche peggio. Passata la fifa che ci fa cercare consolatorie alleanze, rassicuranti coesioni che non si sa mai, ognuno tornerà ai propri piccoli o grandi egoismi, e forse anzi si scatenerà una caccia alle streghe per scoprire di chi è stata la colpa di questo disastro, si faranno le pulci a chi ha preso o non ha preso decisioni, si faranno inanellate ipotesi di serendipity, se, se e se invece. Credo davvero che andrà così perché siamo discoli e la lezione non ci basta mai.
di Elena Tropeano
QUARRATA (PT). Eppure questo periodo di emergenza a me pare che non mi abbia sconvolto come gli altri; sono passata da giornate piene di cose da fare, lavoro, riunioni, famiglia e a fine giornata, esausta, lamentarmi di non averlo mai questo tempo per me, di non dedicarmelo un po' di questo lusso, il tempo, per gioire e per recuperare anche mentalmente, a giornate opposte. Adesso il tempo è arrivato, ne avanza, ma è giunto in malo modo e questo virus malefico sembra anche averlo apparentemente fermato. Dopo aver valutato l'importanza di smettere con i ritmi di prima, già all'inizio di marzo, considerando il lavoro che svolgo e quindi la possibilità di espandere il contagio in modo importante, sono giunte anche le indicazioni dai vertici medici di tenere aperto solo per le urgenze indifferibili: la svolta; ci hanno detto di lavorare meno, quasi niente confrontandolo con il periodo pre-virus. Lo smarrimento iniziale c'è stato perché il fisico e la mente sono abituati a lavorare a cento all'ora e poi ti dicono che devi rallentare parecchio; in più poi devi sbrigare tutte le fasi burocratiche che la fase emergenziale comporta lavorando come libero professionista, che sono spesso svilenti, specie quando fai a botte per natura con numeri e i calcoli matematici: lo prenderò il bonus e l'indennizzo, ce la farò a star chiusa qualche mese e la banca bloccherà almeno il mutuo più importante che ho?
di Marcello Bugiani
PISTOIA. Pronto!
Sergio rispose un po’ svogliatamente al telefono. La chiamata arrivava da un collega della Volante mandato a pattugliare le strade; dal Prefetto erano arrivate disposizioni precise per i controlli sugli spostamenti pasquali, nessuno doveva raggiungere case al mare, prati per un picnic, boschi o laghi ameni di montagna. Tutti in casa! questo il diktat governativo.
Scusa Sergio, non volevo disturbarti, ma abbiamo fermato un anziano un po’ squinternato, a Capostrada, dice di essere lontano da casa, è in ciabatte, sta farfugliando cose sull’Autocertificazione, non ha documenti… ha detto che ti conosce, potresti venire? Altrimenti ci tocca portarlo in Centrale.
Arrivo.
Sergio sbuffò, ma un vago sospetto su chi fosse l’anziano squinternato presto s’impadronì di lui. Passato il primo morso di fastidio, sentì crescere dentro di sé un vago tepore di curiosità. Da giorni ormai aveva perso interesse per persone e cose, nelle ultime settimane gli sembrava di aver vissuto costantemente con la testa sott’acqua, ma questa volta, pensò, ci sarebbe stato da divertirsi. In più avrebbe avuto modo di scambiare due parole con un essere umano, probabilmente una vecchia conoscenza.
di Ivano Montano
SALERNO. Caro Lucio ti scrivo, così mi distraggo un po' e, siccome sei molto lontano, più forte ti scriverò. Da quando sei partito, c'è una grossa novità: i muti ancora non possono parlare, mentre i sordi già lo fanno, ma non sono certo parole gioiose. È vero, come dicesti, che ci sarà da mangiare per intere settimane, perché ormai siamo abituati a fare la spesa grande per riempire frigoriferi e dispense. Sai, Lucio, piacerebbe anche a me volare come le rondini. Ma non riuscirei, ora, a incontrare le espressioni dialettali, perché sono tutti chiusi in casa. Si, anche loro, anche i vecchi che leggevano i giornali. Caro Lucio, stiamo semplicemente aspettando che passi quest'anno, con la certezza che non ci sarà Pasqua e la segreta speranza che, l'anno prossimo, sarà davvero tre volte Natale. Per abbracciarci in famiglia due volte in più. Vedi, Lucio, non abbiamo ancora capito da dove arriva l'uomo invisibile che ci minaccia e ci priva di serenità e libertà.
di Letizia Pieri
PISA. Quando ero piccola ero sicura che nella vita non mi sarebbe successo mai niente di brutto. Dovevo soltanto essere buona per farmi sorridere dalla fortuna. Ovviamente, crescendo, mi sono resa conto che le cose non vanno esattamente in questo modo. La vita di ogni essere umano è fatta di gioia e dolore, lo so. Ma in qualche modo il tarlo del per sempre felici e contenti si era insinuato nella mia mente più in profondità di quanto mi aspettassi e, in fondo al mio cuore, ero ancora convinta che nessun male mi avrebbe mai raggiunta. Le tragedie però accadono, spesso senza un motivo e possiamo scegliere di vivere pensando che nulla ha un senso, oppure possiamo provare a dare valore a tutte quelle piccole o grandi cose che abbiamo, prima che si perdano e ce ne rimanga solo il ricordo. La sofferenza è diventata reale quando mi è caduta accanto e, vedendo le persone intorno a me, mi sono accorta di non essere sola, che ognuno ha bisogno di un po’ di conforto in questa esistenza così complicata.
di Simona Messina
ROMA. A dicembre sembrava che in Cina fosse scoppiata un’epidemia di influenza particolarmente contagiosa, forse in qualche modo figlia della cosiddetta SARS. Si presentava con sintomi lievi, ma sotto particolari circostanze, poteva trasformarsi in polmonite acuta e i pazienti dovevano essere ricoverati in terapia intensiva. Il 31 dicembre scorso le autorità sanitarie cinesi hanno comunicato la notizia di un focolaio di sindrome influenzale, associata a polmonite, di origine sconosciuta, verificatosi nella città di Wu Han, da qualche parte alla confluenza tra il Fiume Azzurro e il Fiume Han, a migliaia di chilometri di distanza dalle metropoli Pechino e Hong Kong. Si è cominciato a dire che l’origine del contagio fosse dovuta all’abitudine di commercializzare animali vivi (il cosiddetto wet market) nei mercati cinesi e particolarmente a Huanan nel centro cittadino. Già il 7 gennaio i Cinesi hanno potuto isolare l’agente patogeno responsabile dell’epidemia: pare si tratti di un nuovo betacoronavirus (qualsiasi cosa significhi), che il WHO ha inizialmente denominato 2019-nCoV e che verso il 10 febbraio è stato rinominato definitivamente SARS-CoV-2, avendo attestato la parentela con il terribile virus della SARS, responsabile tra il 2002 e il 2003 di una pandemia in Asia con oltre 8000 casi di contagio e quasi 800 decessi.
di Stefania Sinisi
FIRENZE. Ti voglio bene, sta’ attenta, mentre lei è in ospedale, vestita, pronta per tentare di arginare il male, io sono inerme. Le mie nottate restano insonni, nella mente solo un susseguirsi di immagini. Per il momento ho superato solo disorientamento, paura, incredulità, annichilimento, ma ho ancora tanta confusione, chiusa in casa nel mio piccolo mondo mi rimane solo il senso d’ impotenza, sono invasa dalla mera inutilità. Lei è là, sul fronte, da dove mi manda un grande cuore blu fatto con le sue mani incerottate nei guanti protettivi (il simbolo internazionale dell’emotività umana). Il blu, colore dell’equilibrio, della costanza, della profondità, dello spazio. È il colore che va indossato per affrontare le prove difficili della vita. Lei lo fa, le affronta con determinazione e il cuore lo sfodera con assoluta spontaneità, attraverso le sue mani, che rappresentano l’energia, l’azione, esprimono l’audacia, l’audacia di chi deve reagire, i medici.
di Francesca Infante
CALENZANO (FI). Quaranta giorni in tutto. È iniziato da tre ore e diciotto minuti il 20 marzo 2020, l'undicesimo giorno, e io mi trovo a scrivere. Undici sono i giorni che il mio account Netflix mi vede connessa. Un numero imprecisato, sono le sigarette che ho fumato. Dopo aver guardato, in ordine cronologico: Orecchie (che vi consiglio come antidoto alla tristezza); puntate sparse di How I Met Your Mother; The Stranger; Russian Doll; Kill Bill Vol. 1 e 2 ( il Vol. 1 con doppia visione consecutiva); aver iniziato qualche orribile commedia romantica consigliata da Netflix (che, per inciso, ogni mattina, mi manda una notifica di buongiorno, ricordandomi di riprendere quelle duemila serie iniziate e mai finite), aver riletto metà del mio libro preferito (Dieci piccoli indiani della splendida Agatha Christie), la notte dell'undicesimo giorno (ormai alle ore 3:25), mi trovo a scrivere, per cercare di prendere sonno.
di Olimpia Capitano
SEMBRA DI SENTIRE l’odore acre di quei vicoli che affacciano sul caotico scantinato dove vive la famiglia Kim. Un groviglio di corridoi intricati e mobilia accatastata, tra cui farsi spazio e inerpicarsi fino all’angolino in alto a sinistra sopra un cesso malandato per allacciarsi al wi-fi di qualche altro disgraziato, un po’ più ingenuo, del quartiere. È uno spazio fuori dal mondo contemporaneo e postmoderno, che lo insegue rimanendo sempre indietro, sovrastato da un’intera città che sembra soverchiare quel seminterrato: un catasto di avanzi e sopravvivenza che sta ai piedi del mondo e cerca di non essere schiacciato. Così la vita scorre, tra un cartone di pizza da ripiegare e l’altro, come automi per raccapezzare uno stipendio di cui a malapena campare, e di fronte allo sciogliersi di scene quotidiane che sporcano momenti di raccattata serenità conviviale con il piscio di ubriachi disperati in mezzo a cumuli di spazzatura che premono contro le finestre del seminterrato. Parasite è una black comedy scritta e diretta dal regista sud coreano Bong Joon-Ho, che quest’anno ha vinto moltissimi premi, dall’Oscar per il miglior film, alla Palma d’oro a Cannes, al David di Donatello per il miglior film straniero e molti altri ancora. Il film esplora indubbiamente alcuni aspetti della cultura sud coreana, passando dai registri iper formali per rivolgersi a coloro che appartengono a classi più agiate, sino all’uso ossessivo dei defumigatori e degli umidificatori, a causa della paranoia psicotica locale, in parte giustificata, riguardo a polveri sottili e pessima qualità dell’aria.
di Marcello Bugiani
E FU COSI’ che Joker si prese il Leone d’oro, vincitore annunciato, con l’unica suspense legata alla corsa di Roman Polanski e il suo J’Accuse! Chissà se i giurati si siano fatti convincere dal sublime ultimo quarto d’ora del film di Todd Phillips, destinato a restare nella storia del cinema per forza visiva, spettacolare incastro di immaginario collettivo, energia di luci, suoni e soprattutto di forza emotiva come da tempo non era dato di vedere sul grande schermo. Non tradisce l’attesa, Joker, grazie al talento sofferto di Joaquin Phoenix. La maschera del cattivo di Batman (peraltro mai evocato nel film) si trasforma da ghigno incontrollato/incontrollabile in qualcosa di più profondo, in un taglio netto nella coscienza sporca di una società che soffoca gli Ultimi, costruita e regolata per schiacciare ogni loro speranza di vita e felicità, fosse anche solo far sorridere un bambino. Gotham City è il palcoscenico spettrale sul quale andrà in scena la battaglia finale, una città grigia, assediata, dove il terrore indossa una tragica maschera da clown.
di Marcello Bugiani
NON VOGLIAMO ASSOCIARCI ai tantissimi che hanno salutato il nono film di Quentin Tarantino quale ennesimo capolavoro; un senso di leggera insoddisfazione addosso terminata la proiezione, qualcosa di non ben compreso forse, una sorta di stonatura che abbiamo percepito dentro ma della quale non riuscivamo a definirne i contorni. Eppure di Tarantino c’è tutto in queste quasi tre ore di cinema; i cinefili e soprattutto la folla di adoratori avranno rivisto e sezionato il film cento volte per scoprire dettagli, riferimenti, omaggi e quant’altro. Un film del genere avrebbe potuto farlo soltanto lui, di questo possiamo esserne certi. E allora che sia stato questo forse a lasciarci perplessi? Il fatto che tutto il mondo si aspetti un film di Tarantino pienamente tarantiniano e che puntualmente (ormai almeno da The Hateful Height) il risultato sia pari alle attese? Dopo averci abituato a capolavori che sovvertivano regole cinematografiche, ma soprattutto ci conducevano per mano dentro storie assurde ma strepitose, personaggi epici, il tutto sempre condito da sapienti ma mai stucchevoli richiami al Cinema d’Autore, fosse anche quello dimenticato di serie B, C’era una volta…a Hollywood pare un temino scritto per la sufficienza, perché da Tarantino è doveroso attendersi di più.
CONTINUA piacevolmente a stupire, Luca Marinelli. Anche stavolta, infatti, così come è già successo con le pellicole precedenti, la trama del relativamente giovane regista casertano Pietro Marcello, fino a Martin Eden specializzato e premiato in cortometraggi, sembra cucirglisi addosso, in modo mimetico, fasciandolo dall’inizio alla fine, ma senza soffocarlo, esaltandone la versatilità, borgatara, coatta, che grazie alla propria abnegazione al sacrificio e animato da una voglia londoniana di affrancarsi dall'anonimato selvaggio riesce a farlo traslocare da Tor Bella Monaca (dove abitava) in piazza Giuochi Delfici (dove è andatpo a stare). La Napoli alla soglia del conflitto mondiale, no, scusate, nel pieno del boom economico, ma no, ai primi anni del ‘900, una Napoli senza tempo, in verità, lunga oltre mezzo secolo, indecifrabile e decontestualizzata, dove vengono traslate le immagini statunitensi originarie del romanzo molto autobiografico di Jack London, somiglia, maledettamente, alla periferia romana di Pier Paolo Pasolini, al quale, il regista, si genuflette con ammirevole discrezione, impreziosita da un dignitosissimo contributo alla pittura e alla musica.
di Catia Zanella
ISPIRATO al romanzo Ladra, di Sarah Waters, che il regista ha trasportato e ambientato da Londra nella Corea degli anni ‘30 durante l’occupazione giapponese. Park Chan-wook, il regista di Mademoiselle (con Kim Min-Hee, Kim Jae-Ri, Ha Jung-Woo, Jo Jing-Wong e Moon So-Ri) spiega: Una società in cui esisteva ancora la classe aristocratica, le ancelle, dove poteva esserci un personaggio che raccoglieva oggetti rari: quella era un'epoca in cui erano presenti ancora alcuni elementi legati alla tradizione, ma la modernità stava iniziando a prendere piede. Nella trama, una ricca ereditiera (Lady Hideko) è tenuta in ostaggio dall’età di 5 anni da uno zio (Kouzuki) cinico e senza scrupoli dedito alla letteratura erotica. Il suo piano è sposare la nipote per ereditarne l’intero patrimonio. Nella loro casa fa ingresso una nuova dama di compagnia (Sookee), già reclutata segretamente da un arrivista senza scrupoli che si finge conte per impartire lezioni di pittura a Lady Hideko, con il fine di circuirla, sposarla ed entrare in possesso di tutti i suoi averi salvo poi rinchiuderla in manicomio. Il piano richiede e comprende anche la collaborazione dell’ancella assoldata precedentemente dall’impostore.
di Catia Zanella
UNA MORBIDA criniera che al rallentatore appare ancora più vaporosa, due occhioni irrequieti di cavallo in libertà e gli zoccoli che scalpitano dilatandosi nel tempo rallentato, scorrono, all’inizio del film (The rider, di Chloé Zhao, con Brady Jandreau, Tim Jandreau, Lilly Jandreau), in sogno al giovane protagonista, Brady Jandreau, di etnia Oglala Lakota Sioux, che vive nella riserva con il padre e la sorella (ai quali, assieme agli amici, è stata affidata la loro stessa storia da raccontare). Il ragazzo si è fatto male in una brutta caduta in un rodeo, che gli è costata una profonda ferita alla testa e la sporadica perdita di prensilità da una mano. Per chi, come lui, ambisce a fare il cowboy e i rodei può essere decretata come la fine di un sogno. Quando il padre lo rimprovera dell’accaduto, l’adolescenza risponde Ho fatto quello che dovevo fare, in un riverente richiamo ancestrale. Ogni tanto Brady riguarda malinconicamente le immagini di vittoriosi rodei mentre omaggia la tomba della madre e redarguisce il padre per non fare il proprio dovere e sperperare tutto alle slot machine, coccola e cura la sorellina affetta da un lieve handicap e placa il proprietario della loro casa mobile risarcendogli con lavoretti occasionali mesi arretrati d’affitto.
di Catia Zanella
LA VENDETTA di Peppino Lo Cicero, camorrista di seconda mano in pensione, a cui viene ucciso il figlio, anch’esso sicario alla mercé di un boss locale. Senza capirne i motivi, in una Napoli quasi sempre in penombra, scura e oscura, un mausoleo che trattiene per se’ ogni tipo di storia che genera, il magistrale Toni Servillo, affiancato dal suo amico e complice da una vita, Totò ‘o macellaio (Carlo Buccirosso) e Rita (Valeria Golino), la sua amante di sempre, consuma la trama e parallelamente si interroga sulla probabilità che contare solo su se stessi a volte ti salva la vita; altre no. Non disvela l’origine dell’una o dell’altra sorte. Lo spettatore di 5 è il numero perfetto deve fare per questo anche una parte attiva: si deve inserire e deve entrare forzando un po’ lo schermo. I lampi delle pistole e i bang bang sono la vera colonna sonora di questo film che adatta per il grande schermo il fumettista Igort. È stato un film di lunghissima gestazione, soprattutto perché avevo molte richieste da ogni parte, non solo dall’Italia.
PRATO. La pornografia è arte, non si discute, senza snocciolare i pornografi che hanno fatto scuola, nel cinema, nella fotografia come nella pittura. Monica Stambrini, regista, ha qualità indiscusse, ma dovrebbe attingere da altri contesti il materiale umano e attoriale per i suoi corto e lungometraggi. Affidare lo scettro del protagonismo dei suoi lavori a Valentina Nappi, stimatissima pornodiva, è un’operazione che, contemporaneamente, assicura visibilità, critiche feroci e dunque salvifiche, ma non eleva, di un solo gradino, l’universo pornografico dal suo ruolo di nicchia sfigata. Non lo diciamo perché ieri sera, 3 agosto, a Prato, al Castello dell’Imperatore, ad assistere a Queen Kong e ISVN (Io sono Valentina Nappi), per la prima delle due serate del Midnight Movies (l’altra, il 10 agosto, prevede la proiezione di Climax, di Gaspar Noé) promosso dal Mabuse Cineclub, c’eravamo solo noi, nella magnifica arena. Non sono certo i consensi popolari a condizionare le nostre recensioni, ma oggettivamente, se nel corto Queen Kong Monica Stambrini riesce senza ombra di dubbio a delegittimare ogni sorta di detrazione, con Io sono Valentina Nappi l’operazione naufraga miserabilmente.
di Francesca Infante
“INSOMMA l'ideale dell'ostrica! - direte voi. - Proprio l'ideale dell'ostrica! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi” (Fantasticheria – Giovanni Verga). Sapete cos'è l'ideale dell'ostrica? È la capacità di rimanere legati al proprio ambiente, senza ribellarsi alla propria condizione. Quando l'ostrica si stacca dallo scoglio muore, inevitabilmente. Così anche gli individui, che vogliono cambiare la loro condizione di vinti, si allontanano dalla posizione che la vita ha scelto per loro, cercando di fare il grande salto, ma finiscono risucchiati dal mondo. Questo Verga ce lo diceva nel 1880. Nel 2019 Giorgio Tirabassi ce lo ricorda, e lo fa con un film dal sapore di vecchio cinema italiano, che tanto mancava. Il grande salto racconta la storia di Nello e Rufetto, due rapinatori appena usciti di carcere.
di Alagia Scardigli
SIAMO A BALTIMORA, nel 1962, in un mondo passato, ombroso, color verde acido, con vestiti e macchine retrò, ma ancora legato a quel senso di meraviglia di fronte al cinema e alla musica, al ballo e alle torte. The Shape of Water è il nuovo film di Guillermo del Toro che strizza l’occhio ai fan di Lovecraft, E.T. e a quelli del Favoloso mondo di Amelie. Elisa Esposito, interpretata da Sally Hawkins, è la Principessa senza voce, una donna delle pulizie, orfana e muta (il suo mutismo non sembra essere solo una condizione fisica, ma anche psicologica, come rinuncia alla vita vera, protesta contro la meccanicità della vita ridotta a mero lavoro, esattamente come Serafino Gubbio operatore), che riuscirà, unica, a stabilire un contatto con l’uomo anfibio – Doug Jones –, una creatura metà umana e metà animale, un dio simile a Chtuluh o Nyarlathotep, per intendersi tra lettori lovecraftiani, ma senza alcuna caratteristica realmente paurosa. L’uomo anfibio è infatti un essere buono al 100%, semmai ancora selvaggio, ma dotato di gentilezza e poteri magici, sensibilità e intelligenza, tenuto nascosto e maltrattato in un laboratorio governativo, che lo vuole utilizzare come strumento competitivo per la corsa allo spazio contro la nemica Russia.
COME A TEATRO. Sembra sempre che Alessandro Gassman, con quel cognome di spaventosa ingombranza che si porta addosso, abbia il terrore di provare a stupire. Lo diciamo perché siamo convinti che se una volta si mettese in animo di fare un capolavoro, saprebbe come fare. E’ un’impressione che abbiamo avuto vedendolo all’opera sui palcoscenici e anche con Il premio, di cui è regista, nelle sale cinematografiche dallo scorso 6 dicembre, siamo esattamente in quel limbo. La pellicola è spudoratamente gradevole; per la costruzione – un viaggio in macchina da Roma a Stoccolma -, che per il cast scelto dal figlio d’arte: al suo fianco, Oreste, figlio palestrato, cornuto e coglioncello di uno scrittore insignito dal Nobel per la letteratura che va a ritirare nella capitale norvegese, ci sono Lucrezia (Anna Foglietta), la sorella blogger aspirante, solo per censo, a diventare una scrittrice, Rinaldo, il segretario del padre, un magnifico Rocco Papaleo e Giovanni Passamonte, lo scrittore, un incommensurabile Gigi Proietti, che in più di una circostanza ricorda, con meravigliosa spudoratezza, il grande Vittorio.
NON CI SONO più le mezze stagioni. Ma neanche le mezze misure. Un buon film, è, automaticamente, un capolavoro. Sorge il dubbio che dietro a tanta magnificenza ci sia la macchina dello star system a distribuire prebende affinché si garantisca il successo. Successo particolare, poi, politicamente auspicabile, questo sì, visto e considerato che la protagonista è Daniela Vega, prima transgender a meritare applausi e consacrazioni cinematografiche. Ma dietro la storia di Una donna fantastica c’è un microcosmo abituale, che non riguarda soltanto Marina, la protagonista del film di Sebastian Lelio, regista cileno che con questo racconto praticamente inattaccabile si è guadagnato una candidatura agli Oscar.
CORAGGIO ne ha da vendere, Cosimo Gomez, non c’è che dire; è un po’ sprovvisto di misura, ma visto che Brutti e cattivi è la sua opera prima, occorre concedergli almeno un’altra chance. La banda dell’Ortica metropolitana è particolare: l’unico normodotato, il Merda (Marco D’Amore), si è bruciato con il crac le cellule bianche del cervello, quelle che non risorgono. Gli altri tre, a iniziare dal boss della banda, il Papero (Claudio Santamaria), Ballerina (Sara Serraiocco) e Plissé (Simoncino Martucci), pasoliniani e felliniani, prima che Scolastici, di testa e cattiveria, ne hanno in abbondanza, ma le loro menomazioni (senza gambe, il primo, senza braccia, la ragazza e un nano) e la loro sete di rivalsa sociale condizioneranno il buon esito della rapina, fatta tra l’altro, alla mafia cinese, il gruppo sbagliato. Siamo a Roma, ma a parte lo slang e qualche veduta aerea, non si capisce quasi mai.
di Alagia Scardigli
NEL SEQUEL di Blade Runner l’anno è il 2049 e ci sono macchine volanti, pubblicità sotto forma di ologrammi ciclopici e il mondo appare come un’enorme industria abbandonata. Gli uomini che lo abitano sono così piccoli rispetto a questa macchina gigante che li governa; non si vedono nemmeno: sono annebbiati dalle piogge acide, non c’è sole che possa illuminare le loro vite. Ecco, ma dove sono, questi umani? Chi sono gli umani? La nostra identità è basata sulla memoria. Da 1984 a Fahrenheit 451 sappiamo che la distopia si realizza quando l’uomo cessa di ricordare, se smette di ripensare alle sue origini. Ma se in questo cyber-futuro la memoria fosse data anche a chi non ha vissuto? Cosa accade se generi ricordi in chi non ha un’infanzia, in chi non ha un’anima? Un replicante può provare emozioni, anche se inculcate? Può porsi dubbi esattamente come fa l’uomo filosofico? Allora cosa distingue i nati dai creati? La linea che separa umano da replicante è così sottile da metterci in confusione per tutta la durata della pellicola.
LE GUARDIE e i ladri si vedono solo per pochi istanti. Ma si capisce, soprattutto dall’aria che tira sistematicamente, soprattutto la notte, che quella è terra di confine. Siamo a Napoli, nel bel mezzo di una delle tante zone di degrado oltre ogni ragionevole giustificazione, dove vive e lavora Giovanna (Raffaella Giordano, purtroppo doppiata da Maria De Filippi) una maestra del nord, che nell’anti-zoo partenopeo, la comunità di recupero per adolescenti disagiati, la sua Masseria, con la complicità del Preside, prova a scippare all’ineludibile un gruppo di bambini. In quel giardino ignorato dai ladri e dalle guardie, oltre che da dio, più che protetto, arriva Maria (Valentina Mannino), L’intrusa, con i suoi due figli: un neonato che piange continuamente (e perché dovrebbe ridere, poi) e Rita (forse è lei, la vera intrusa), una meravigliosa adolescente, già incattivita.
di Marcello Bugiani
Hitler ebbe a disposizione un match point contro gli Alleati nel giugno del '40, ma non lo sfruttò. Così, oltre 300mila soldati inglesi ormai spacciati sulla spiaggia di Dunkerque, assediati via terra, cielo e mare dai Tedeschi, rientrarono in patria, grazie in particolare all'intervento eroico, folle e disperato di centinaia di imbarcazioni civili di ogni genere che attraversarono la Manica e riportarono a casa i sopravvissuti. Lasciamo agli storici spiegare come mai Hitler, all'apice della potenza distruttiva del suo esercito, consentì agli Inglesi di mettersi in salvo (tra loro anche decine di migliaia di Francesi); forse pensava a un futuro accordo con la Perfida Albione, chissà. Ma fu un errore: Churchill riorganizzò le truppe e, soprattutto, restituì dignità e fiducia a un popolo intero. Sappiamo poi come è andata a finire.
di Marcello Bugiani
La vendetta è un piatto che si consuma freddo, d'accordo, ma non tutti possono avere la pazienza, né la classe, di Edmond Dantès, alias il Conte di Montecristo. Anche José, tranquillo frequentatore di un bar di periferia, attende per anni il suo momento, poi, vendetta, La vendetta di un uomo tranquillo, sarà. Sì, perché il titolo italiano in realtà svela molto di ciò che attende l'ignaro spettatore: l'originale spagnolo, Tarde par la ira (Tardi per la rabbia), avrebbe lasciato un margine di suspense più ampio, almeno buona metà di film. Il buon Alfred Hitchcock avrebbe bacchettato i distributori italiani. Ma torniamo al film di Arévalo, qui alla sua prima prova da regista. Non si tratta, a mio modesto parere, di un capolavoro, ma di un film di buona e onesta fattura, con molte lacune, in primo luogo somigliare a tante pellicole già viste.
Come saranno le commedie (all’italiana) del terzo millennio? La tradizione è tra le più forti del panorama cinematografico internazionale: in Italia si è riso parecchio, con cast di prim’ordine, mostri sacri del grande schermo che non hanno però lasciato eredi. Anche perché, ridere, oggi, è assolutamente diverso. Marcello Macchia, al secolo Maccio Capatonda, è uno di quelli che più di altri è riuscito a captare e interpretare il nuovo umorismo, splatterando in pellicola quello che succede praticamente tutti i giorni, un inanellarsi di fatti e misfatti quasi sempre criminali e criminosi così efferati che, per abitudine e sindrome di Stoccolma, abbiamo finito per innamorarcene e che sono i termini di Omicidio all'italiana.
di Marcello Bugiani
Avete presente La La Land? Bene, scordatevelo, perché Manchester by the sea è il suo esatto contrario, il polo negativo contrapposto al positivo, l'uniformità del grigio sbattuto contro il mondo colorato della California. Con il pluricelebrato film di Chazelle ha una sola cosa in comune: è un film bellissimo, che rafforza il piacere di andare al cinema, che premia la fatica di alzarsi dal divano la sera dopo cena per assistere ancora una volta a quella magia che solo il grande schermo sa confezionare. Sì, perché è un piccolo capolavoro Manchester by the sea, di Kenneth Lonergan, regista di nicchia, da molti anni nel limbo dei talentuosi autori di cinema sommersi, in attesa di una svolta che forse oggi è finalmente arrivata.
di Marcello Bugiani
Intenso, bello e spettacolare il Mel Gibson guerriero nel Pacifico, anche grazie al suo alter ego sullo schermo, quell'Andrew Garfield sicuramente più convincente in questo ruolo che in quello di padre Rodrigues nel Silence di Scorsese. Il merito più grande di Gibson sta forse nell'aver confezionato una pellicola, La battaglia di Hacksaw Ridge, che non dimentica niente (ma proprio niente!) dell'iconografia cinematografica a stelle e strisce in fatto di guerra, che si tratti di Vietnam, Giappone o sbarco in Normandia. Eppure, seppur trattandosi di un nobile collage di tanti già visto, il film ha una sua forza visiva che sbaraglia molta della concorrenza sul genere. Protagonista assoluto Desmond Doss, giovane testimone della Chiesa Avventista che sente forte il desiderio di aiutare la Patria dopo il disastro di Pearl Harbor, offrendosi come volontario nell'esercito americano;
di Marcello Bugiani
Lavoro complesso, di non facile lettura, Il Cliente di Asghar Farhadi. La vicenda ruota intorno a due protagonisti assoluti, Emad e Rana, giovane coppia impegnata culturalmente in una Teheran che pare sgretolarsi intorno a loro; marito e moglie fanno coppia anche a teatro, portando in scena Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller. Il dramma, che faticosamente la compagnia sta allestendo in uno scalcinato teatro di Teheran, sembra offrirci una chiave di lettura per seguire la vicenda dei due coniugi. Se Miller ha dato forma al fallimento della società dei consumi occidentale nel secondo dopoguerra attraverso il feroce ritratto della famiglia-tipo americana, il film di Farhadi percorre con dolore il disfacimento di quel che resta e di quel che sarebbe potuto diventare l'Iran moderno.
PRATO. Tre storie delle quali il mondo ne è pieno, Torino compresa, dove si svolge la trama di Le ultime cose, prima pellicola della giovane documentarista Irene Dionisio, che riesce a catalizzare attorno al Banco dei Pegni del capoluogo piemontese una giovane transessuale, Sandra (Anna Ferruzzo), Stefano, un giovane neo assunto (Fabrizio Falco) e Michele (Alfonso Santagata), un anziano pensionato. Tre vite lontane, che forse non si sarebbero incrociate mai se il destino non le avesse portate a incontrarsi in quell’ufficio. Tutti e tre alla ricerca di riscatto. E nessuno riuscirà a trovarlo. Tre piccole storie ignobili, come canterebbe Francesco Guccini, di normale tragica amministrazione, contemplate solo sporadicamente dagli studi psicologici e di mercato, talvolta dalla cronaca.
di Rebecca Scorcelletti
C'è sempre una prima volta per tutto. La mia prima vigilia di Natale al cinema è stata rapidamente decisa alle 21,36 per essere alle 22,00 in sala. Uno zelo eccessivo, a meno che non si ritengano propedeutici alla visione del film i circa 40 minuti di pubblicità che lo hanno preceduto. Chi è Pawar? Pawar è il bimbo scelto dal regista Garth Devis per interpretare Saroo Brierley. Assieme a Dev Patel, attore britannico di origine indiana (The Millionaire, L'uomo che vide l'infinito) Pawar è il protagonista di Lion - La strada verso casa. Il film racconta la vera storia di un indiano adottato da una famiglia australiana all'età di sei anni circa e che, divenuto un uomo, decide di andare alla ricerca delle sue origini.
di Catia Zanella
A Carla, critica musicale, all’età di trent’anni, le diagnosticano un tumore al seno. Siamo negli anni ’80 e il Brasile pare sul punto di risorgere. Nipote di Lucia, eredita dalla zia una spiccata libertà di pensiero derivata dalla cultura e dalle profonde conquiste sociali per cui aveva combattuto a costo della galera. Trent’anni dopo, Carla, sessantenne, ormai vedova da diciassette anni e con tre figli grandi e indipendenti, vive intensamente la sua vita fra la musica e le relazioni sociali, componenti essenziali dell’identità brasiliana.
di Catia Zanella
Louis, un famoso scrittore trentaquattrenne omosessuale, decide di far visita, dopo 12 anni di assenza, ai suoi familiari. Vuole salutarli. Quello sarà il suo ultimo ritorno a casa perché è condannato a morire prematuramente. Per comunicare la notizia dovrà aspettare il momento giusto, confida al suo amore al telefono. Inizia, quindi, sia per lui che per lo spettatore, l’attesa di quello che si preannuncia un solenne momento. La sua famiglia, ancora ignara, gli si compatta attorno al suo arrivo. Ognuno si prepara a modo suo a quella inaspettata visita e ognuno intratterrà con lui una propria maldestra, o quantomeno inadeguata, relazione, a cui Louis sottace.
di Catia Zanella
La pelle dell’orso è girato nelle basse Dolomiti, intorno agli anni ‘50 e la scelta opacizzata del regista, l’esordiente Marco Segato, che si è ispirato all’omonimo libro di Matteo Righetto, ci rimanda da subito a decenni di distanza, tra retaggi storici e filtri cinematografici, cari in particolare al maestro Olmi. Nella cava di pietra, dove lavora la maggior parte dei protagonisti, sopraggiunge un incidente derivato da un’esplosione. Qui, i monti, non si classificano solo per la loro suggestiva bellezza. Diventano mondi impervi, faticosi, pericolosi e circoscrivono, talvolta grettamente, la vita delle persone.
di Alagia Scardigli
Quando abbiamo letto il cast composto da Herbert Ballerina (nome d’arte di Luigi Luciano), Maccio Capatonda (il cui vero nome è Marcello Macchia) e Ivo Avido (pseudonimo di Enrico Venti) sapevamo che saremmo andati a colpo sicuro. Quando, poi, l’occhio si è soffermato sulla regia – Enrico Lando, il creatore del format televisivo e cinematografico de I soliti idioti - abbiamo avuto molti dubbi. Temevamo che il trio dello Zoo di 105 fosse caduto nella voragine, dove era già cascato Ruffini, delle battute volgari e infantili pur di fare un po' di soldi. Invece, concluso il film, possiamo dire che Herbert & Co. sono riusciti, come al loro solito, a risultare trasversali, nel senso che il loro è un umorismo che piace a tutti: chi è più colto e informato può cogliere, dietro le battute, significati profondi e critiche acute a certi sistemi (dalla moda alla comunicazione di massa passando per i pregiudizi e i luoghi comuni propri dell’italiano medio, che, guarda caso, è anche il titolo dell’ultimo film di Maccio Capatonda).
di Catia Zanella
Frequenta, principalmente, il teatro, ma quando si mette dietro la cinepresa, il russo Kirill Sebrennikov riesce a raggranellare consensi e premi. Con The student (sottotitolato La parola di Dio, proiezione drammaturgica dell'opera del collega tedesco Marius Von Mayenburg, (M)uchenik), la gradita e ormai inevitabile incetta è arrivata a Cannes, all