di Sara Pagnini
FIRENZE: Venerdì 12 dicembre al Teatro Cantiere Florida (Firenze) per la stagione a cura di Versiliadanza (direttrice artistica Angela Torriani Evangelisti che, tra l’altro, ha da poco pubblicato un bel libro su Lilia Bertelli) ha debuttato la prima tappa del nuovo progetto di Marta Bellu, dal titolo Grave, le cavità del segno. Nessuna musica, nessuna scenografia, due artisti che ritmano il movimento dei loro corpi tramite lo sfregamento di quattro pietre, una in ciascuna mano, sono pietre delle Dolomiti; il suono è primitivo, viene da lontano, dalle viscere; poi, lui, il musicista, Francesco Toninelli, suona con le mani una grancassa di pelle e lei, Laura Lucioli, si muove senza una sequenza stabilita, né rigida: emette suoni gutturali, dimena la testa in grandi cerchi facendo roteare i lunghissimi capelli lisci che usa per espandere il movimento lontano da sé; un movimento puro, senza sovrastrutture, né schemi. Lui, il musicista, è alto, filiforme; lei, la performer, è piccola e rotonda: insieme si fondono. Lei ha la sindrome di Down. Chi scrive, della Trisomia 21, sa molto poco, e non importa saperne qualcosa per apprezzare la performance che è limpida, libera e liberatrice. La coreografa e danzatrice Marta Bellu è nota per il suo lavoro sulla danza inclusiva e per il suo intenso lavoro con persone con disabilità intellettiva. Chi scrive, ebbe la fortuna, anni fa, di conoscere e seguire delle lezioni tenute da Maria Fux, pedagoga e artista argentina che con gentilezza e determinazione insegnava un suo meraviglioso metodo di danzaterapia. Con lei si impara(va) che non c’è nulla che si possa dare se non lo si sente prima nel corpo; le potenzialità espressive – potenti in questa performance – sono presenti in ogni essere umano.
PISTOIA. Le rappresentazioni teatrali di danza contemporanea, abitualmente, non durano più di un’ora; non è una regola artistica, ma chimica, alla quale tutti, ma proprio tutti i danzattori, sottostanno. Cristiana Morganti ed Emanuele Soavi, però, ieri sera, al Funaro di Pistoia, hanno cronometricamente eccepito. Non lo han fatto perché i loro curricula glielo avrebbero permesso e glielo permettono ovunque e in ogni tempo, da sboroni, in parole povere, ma perché la loro esibizione, This is a Premiere, ha bisogno di qualche decina di minuti in più dei tempi canonici e loro, rendendole con gli interessi, se le sono prese. L’incipit racconta di un incontro, casualmente desiderato, tra due anime, nobili e pluridecorate, della danza contemporanea; due galli che decidono di convivere, per un po’, all’interno dello stesso pollaio. La diplomazia stenta a decollare, all’inizio; entrambi rivendicano, a pieno titolo, merito e diritto, i rispettivi trascorsi artistici. Ma dopo qualche tenero battibecco sull’uso smodato del corpo, sui ghirigori delle braccia e delle mani, Cristiana ed Emanuele condividono, tanto ineccepibilmente quanto dolorosamente, lo stato contemporaneo della danza contemporanea, alla mercé di premi e sovvenzioni, affidata e affidabile solo e soltanto a giovanotti con una muscolatura più che tonica e lentamente e inesorabilmente spopolata e spolpata della sua natura. E visto che Morganti e Soavi appartengono al gotha della danza, le disquisizioni artistiche finiscono, inevitabilmente, per tracimare sui terreni limitrofi: la politica, le società (in)civili, la considerazione professionale della danza, che altrove, in un altrove ovunque, è considerata una professione, men che in Italia, dove è valutata come un orgiastico passatempo di ballerini, spesso omosessuali, che hanno la presunzione di sopravvivere ballando e che, una volta allentata la tensione delle muscolature, come sta succedendo ai due protagonisti, con qualche chilo in più, salutato da fragorose risate, finiscono per diventare abili e commoventi direttori artistici di festival yoga e responsabili tecnici di saloni di pilates. Non c’è nostalgica acrimonia in questo dolcissimo racconto, né rabbia sorda per immotivata irriconoscenza, ambientato in questa enorme stanza di una qualsiasi città tedesca, una Regione piovosa, fredda, plumbea, dove anche lo slang sembra non poterti e volerti accettare, salvo poi stenderti interminabili tappeti rossi se solo riesci a dimostrare di avere carte e numeri per essere competitivo. Anzi. L’ironia e il sarcasmo accompagnano fedelmente tutta la rappresentazione, cadenzata da saggi ginnici e brani musicali che sembrano appartenere, nostalgicamente, ai loro rispettivi esordi. This is a Premiere, in realtà, più che una nuova esibizione di danza contemporanea, è, invece, un meraviglioso saggio sull’incedere del tempo e sulla capacità, rara e dunque rivoluzionaria, di saper ascoltare: il corpo, il nostro corpo, con le nuove prospettive e l’accettazione di primavere sbiadite e lontane e la mente, la mente di ognuno, che ci impone di non dare nulla per scontato, anche se cementificato in anni e anni di esperienze, che possono trasformarsi in pericolosissime e inattaccabili convinzioni. In platea, tra estimatori di ogni tempo, curiosi entusiasti e cronisti attenti a prendere appunti per non dimenticare passaggi fondamentali, anche un piccolo e dolcissimo marmocchio, ahilui e ahinoi, bronchitico. All’ennesima dolorosa e fastidiosa scarica di colpi di tosse, tanto i protagonisti quanto il pubblico, si sono sommessamente augurati che chi lo aveva accompagnato avesse il buonsenso di accomodarsi fuori. Macché.
PISTOIA. Il foglio di sala lo abbiamo letto rigorosamente dopo aver scritto la recensione, perché non avevamo alcuna intenzione di lasciarci condizionare. Un po’ perché la nostra presunzione va oltre ogni ragionevole limite, ma soprattutto, senza volerci così discolpare, perché il teatro di danza, se spiegato, perde inevitabilmente la sua carica esplosiva e finisce per venir incastrato laddove i nostri sensi trovano agiatezza, domicilio, residenza. E invece, con Le sacre du printemps, ieri sera al Teatro Manzoni di Pistoia, ci siamo lasciati sommergere da una serie di fucilate che nessun cecchino avrebbe potuto esplodere con tanta precisione e pari devastazione. La storia, quella da noi intesa – e visto che ne scriviamo, almeno per questa rivista, sarà la versione ufficiale – è quella delle stagioni esistenziali: gestazione, nascita, vita e morte, in una circolarità tanto estenuante, quanto meravigliosa e con un occhio di riguardo, non foss’altro per la forza del titolo e perché, in assoluto, è la stagione della vita, della morte e della rinascita, alla primavera. Ma è una storia antica, quella rappresentata, proprio a Pistoia, per la 50esima volta, da Dewey Dell, che vanta la regia delle sorelle Agata e Teodora Castellucci e Vito Matera e vede in scena, su una scenografia e coreografia tanto minimali, quanto monumentali, Agata Castellucci, Teodora Castellucci, Alberto Galluzzi, Nasty Den e Francesca Siracusa, sulle note del più grande musicista teatrale della storia dell’umanità, il russo/francese/americano Igor Stravinsky, con una scelta costumistica firmata da Carmen Castellucci, Dewey Dell e lo studio Plastikart che incarna, perfettamente, l’umore e il cromatismo essenziali di questo balletto/non balletto, nel quale si torna alla genesi per riuscire a guardare avanti, oltre, nell’augurio che tutto questo, il mondo, lo voglia e lo possa ancora consentire. Un’ora scarsa di bombardamenti fitti, dall’inizio, dalla placenta, nel momento più importante e delicato, quello della rottura delle acque, alla morte, alla fine, dove quello che è stato tornerà a essere, in un circolo vizioso e un ciclo infinito senza sosta, un arco temporale sotteso alla vita e agli attimi di ogni singolo protagonista appartenente al genere umano, ma anche a quello animale, vegetale, ideale. Mantelli enormi che liberano e rapiscono la vita, la lasciano esprimersi al suo meglio, per poi ricondurla nell’alveo primordiale, quello dal quale è sbocciata. Pistilli di enormi anthurium – fiori sacri ed erotici, simbologie inconfondibili dell’irresistibile bellezza dei glutei femminili – che una volta recisi si trasformano, o tornano a essere, quello che furono agli albori, agli inizi: il seme. Ma non è una rappresentazione umana; è, semmai, una raffigurazione vegetale, un cosmo popolato solo e soltanto da blatte, insetti onnivori, enormi, giganteschi, spaventosi, che danzano in modo macabro attorno alle loro prede prima di stordirle, fiaccarle e cibarsene. Sono le stesse carcasse che hanno saputo resistere alle intemperie e sopravvivere in condizioni disumane, rafforzando la loro tenacia, il loro temperamento, il loro naturale e vitale cinismo, un ciclo saprofitico e metempsicotico che finisce per potersi riassumere con i soli due sopravvissuti alla catastrofe: il cazzo e la fica, che rappresentano, in qualsiasi stagione terrena, i due elementi ai quali imputare la vita e la morte. Il pene e la vagina, che sono esattamente la stessa identica cosa, hanno, però, nel loro suono e significato, un’interpretazione e una poetica decisamente scientifiche e non avrebbero lontanamente rappresentato l’umore, gli odori e le sensazioni della rappresentazione, che ha stordito il pubblico in sala, costretto ad applaudire a qualcosa di molto ingombrante e poco decifrabile. Una mazzata salvifica, portata in scena, tra l’altro, da una compagnia di danza composta da piccole e meravigliose anime pure, messaggere di un’ingombrante e indiscutibile verità, che ogni tanto faremmo meglio a ricordare.
di Sara Pagnini
FIRENZE. Un interessante dialogo tra danza e arte visiva racconta Maurizio Cattelan, artista noto e controverso, l’artefice di La Nona Ora (Papa Giovanni Paolo II colpito da un meteorite), o Comedian (la banana attaccata al muro con lo scotch). L’originale progetto monografico (debuttato a Parigi) andato in scena a Firenze, venerdì 14 novembre, presso il PARC Performing Arts Research Centre, è figlio del Centro Coreografico Nazionale/Aterballetto. Il giornalista e divulgatore culturale Nicolas Ballario prende per mano il pubblico, con la sua voce calda e pastosa - quei timbri vocali eufonici che mettono appetito al sentirli -, tracciando un percorso narrativo che intreccia arte contemporanea e performance. I corpi di due giovani ballerini, Alessia Giacomelli e Kiran Gezels, mettono in scena in modo inedito alcune opere del celebre artista visivo traducendo in movimento l’ironia e le contraddizioni delle opere di Cattelan, ma anche tutto il dolore che le sue opere trasudano. Sulla struggente aria di Handel, la danzatrice interpreta, vestita di un calzoncino corto con bretelle da ragazzino e indossando una maschera che riproduce un viso freddo e squadrato di uomo adulto e impassibile, l’opera di Cattelan intitolata Him, che ritrae Adolf Hitler in ginocchio in preghiera con il volto pensoso, malinconico, con gli occhi lucidi imploranti e il corpo minuto di un ragazzino. I significati possono essere molteplici, insieme alla forte provocazione, che la coreografa Lara Guidetti accoglie creando passi e movimenti taglienti e inquietanti che contrastano con la delicata melodia di Handel e le parole dolcissime dell’aria: Lascia ch’io pianga la mia crude sorte, e che sospiri la libertà. D’altronde Ballario ci dice di non cercare significato nelle opere d’arte; l’arte non ha un significato univoco; nessuna interpretazione sarà giusta e nessuna interpretazione sarà sbagliata, tanto più per Cattelan, l’artista dell’illusione, irriverente quanto scomodo. Questo in estrema sintesi è stato lo spettacolo Visioni del corpo. Maurizo Cattelan che fa parte di un’intelligente e originale rassegna diffusa nei cinque quartieri di Firenze, in spazi non convenzionali, iniziata l’11 ottobre e che terminerà il 29 novembre, guidata da Saverio Cona (presidente e direttore artistico Stazione Utopia). Il nome della rassegna è KOMOREBI termine giapponese che sta ad indicare la luce del sole che passa tramite i rami e le foglie degli alberi, quella che luccica ma non ferisce gli occhi. KOMOREBI risveglia dal torpore autunnale e lascia filtrare la luce su persone, luoghi e idee.
FIRENZE. Le foto di scena, nelle rappresentazioni teatrali, soprattutto per chi ha il piacere di recensire, sono fondamentali. In un atto di poco più di un’ora ci sono una miriade di scatti virtuali da consegnare a chi di dovere per il comunicato stampa. Quelli di Monia Pavoni, filtrati dall’addetta Simona Nordera, sono davvero quanto di meglio si possa e si potesse cementificare nell’immaginario postumo da consegnare ai (re)censori e dunque ai lettori. Proviamo a riavvolgere il gomitolo di Panoramic Banana facendo finta di non aver letto nulla, a proposito, anche in considerazione del fatto che lo spettacolo, in scena ieri al Cantiere Florida di Firenze, ha rappresentato l’epilogo della XXXII edizione del Festival Fabbrica Europa. Il Dj Biagio Caravano, che sulla schiena ha una scimitarra sorretta in vita da una cintura, all’occorrenza può diventare il Sandokan de noantri, visto e considerato che i suoi cinque tigrotti (Sebastiano Geronimo, Luciano Ariel Lanza, Flora Orciari, Laura Scarpini e Francesca Ugolini), invitati a una festa di finemondo e alla quale si presentano in tuta adamitica e con il volto coperto, non smettono un attimo di danzare, e non di ballare, sulle note che arrivano dalla consolle, un misto techno/dark con riferimenti afro (The Creautures). Sul maxischermo verticale, proprio davanti al sint, illuminato a dismisura con cromatismi accecanti (Giulia Broggi), uno stordente vecchio video gioco, all’occorrenza foriero di ludopatia, nel quale si susseguono, annullandosi reciprocamente, una moltitudine di immagini (Lorenzo Basili) care, preziose, al Capitalismo; i simboli delle multinazionali, delle piattaforme sociali, delle auto, dello star system femminile e altre non debitamente catturate dalla nostra stanca voglia di memorizzare, che finiscono per far posto a un mitra, una bomba, una pietra preziosa e una tigre, di Mompracen, naturalmente, visto che al Dj abbiamo già affibbiato l’assonanza sandokaniana. Non sappiamo cosa abbia voluto dire, o volesse dirci, il poeta Michele Di Stefano, pluridecorato coreografo che già oltre due lustri or sono ha ottenuto il significativo e sintomatico Leone d’Argento per l’innovazione nella danza alla Biennale di Venezia. Né ci siamo presi cura di chiederglielo, alla fine della rappresentazione; chissà quanto tempo sarebbe occorso per dare la giusta ossatura all’intera costruzione e chissà che tristezza avremmo potuto provare nel sentirci eventualmente dire dall’autore cose che noi non avremmo neppure immaginato. Abbiamo preferito restare nella nostra inconsapevole presunzione e ci siamo lasciati guidare, come sempre, dal sensazionalismo che gestisce, sistematicamente, i nostri commenti. Non siamo forse a Mompracen, ma nemmeno molto lontano da lì, probabilmente e i cinque sopravvissuti, che sanno di esserlo solo al termine, quando il loro domatore malese impone loro un messianico raccoglimento, invitando vittime e carnefici a chiedere perdono e clemenza, scoprendosi i volti e riconoscendosi, si alternano al cospetto del pubblico in movimenti che richiamano, spudoratamente, le immagini che fino a poco prima hanno campeggiato sul palco, cambiando meravigliosamente la colorazione delle proprie tutine a seconda delle proiezioni luminose che scendono dall’alto, un gioco di ombre che tocca il proprio apice quando queste riescono addirittura a sdoppiarsi in un sensazionale bicromatismo. Ma per il gruppo MK (questo il nome della Compagnia in piedi ormai da venticinque anni), questi dettagli sono il sunto della loro ideologia, dove il caotico e babelico divenire finisce per essere, puntualmente, il nuovo ordine di sopravvivenza, in un ambiente subdolo e privo di principi, prima che di regole, nel quale, sovente, la ragione spetta, di natura, a colui che meglio di chiunque altro riesce a decifrare il volere dei potenti e la possibilità di continuare a sopravvivere, almeno sorridendo, di fronte ai loro dettami, così che, alla prossima potenziale catastrofe, il gruppo dei sopravvissuti sappia da chi prendere ordini. Il rischio che corre Michele Di Stefano e la sua navigatissima ciurma è che il tempo assottigli le idee e che il day after da troppo tempo temuto diventi, con il trascorrere dei Festival, soltanto un meraviglioso escamotage.
FIRENZE. Per i puristi del Fenicottero, con quel viso rubicondo e in continua profanazione della sacralità di quella danza musicale andalusa, Rocio Molina è semplicemente una meravigliosa, impeccabile, irriverente provocatrice, che sembra essersi presa la briga di rivoluzionare, definitivamente, il Flamenco. In questo Mondo che cambia confini, sintassi, paure alla velocità della luce, c’è ben poco da meravigliarsi (se continuiamo a non muovere un dito per Gaza, cosa altro dovrebbe succedere?), ma l’operazione della bailaoras dissociata, ma non pentita e aspirante punk è, insindacabilmente, straordinaria. Perché non rinnega assolutamente nulla di quello che ha imparato e raffinato nei suoi circa quarant’anni di studio (ne ha appena 41, ma a tre, era già sul palco), ma dal suo Almario (l’armadio dell’anima), nel quale custodisce un’infinità di ricordi, oltre che abiti, scialli e nacchere, ha deciso di spolverare e traghettare, sull’altra sponda della danza e della sua esistenza, non solo quel linguaggio intimo e privato che caratterizza da oltre tre secoli il Flamenco, ma anche e soprattutto l’incedere collettivo della necessità di immedesimarsi nei suoni, nella materia e nel loro continuo divenire. Ecco così spiegato e giustificato il furto di un secchiello di sabbia da una spiaggia non necessariamente andalusa, ma anche catalana, perché no, che crea una fotografia nuova e diversa rispetto all’immaginario collettivo, una singolare rappresentazione alla quale, fino a Rocio Molina, solo l’immaginazione pura e senza filtri dei bambini avrebbe potuto nascere e acquistare sagoma e fisionomia credibili. Per non parlare delle bustine di granuli di chewingum, che prima di diventare gomma da masticare da cui fare bolle che poi scoppiano, emettono un divertente sfrigolio che accarezza e stuzzica il palato, che con la bocca aperta e il viso rivolto all’insù, approfittando del microfono che contemporaneamente è stato catapultato nel bel mezzo del proscenio, raccontano una miriade di giochi e ricordi adolescenziali che credevamo non appartenerci più e con i quali, da ieri sera, riprenderemo a far sì che si materializzino, non foss’altro per rinverdirne la memoria. Certo, perché il Flamenco non si indigni fino all’insurrezione e faccia una specifica richiesta danni culturali, morali e musicali, ci vuole una chitarra, che solfeggi con imponenza e fisicità come maestosa tradizione impone; a questa ci pensa Yerai Cortés e tutta La Pergola di Firenze, che ieri sera ha assistito alla prima nazionale di Vuelta a Uno, si alza in piedi e ringrazia, in un incalzare di applausi che sono la summa dello stupore e del ringraziamento, tra un non ci avevo mai pensato e ma certo, questa è la nuova direzione, scoprendo, proprio mentre la rappresentazione scarica a terra tutti i propri fulmini, la nuova frontiera di questa antica danza, che invece che essere a fine corsa, torna all’origine e diventa altro, come un Fenicottero che si scopra Camaleonte. L’ambiente è quello che si è costruito attorno alla XXXII edizione di Fabbrica Europa di cui il Teatro declassato de La Pergola, retrocesso per manifesta bellezza di programmi e produzioni, ha deciso di ospitarne questo sontuoso appuntamento. Il palco è uno stadio illuminato da 76 occhi di bue, così posizionati: quattro file da sei sui due lati laterali e quattro da sette in fondo, che si accendono e si spengono con la medesima ritmicità con la quale i due protagonisti intessono le loro conversazioni, fatte di riflessioni, a volte esageratamente lunghe e flebili confidenze, intraducibili anche in un ambiente nel quale vige il più rigoroso e religioso silenzio. Nel mezzo, dove le scarpe con i tacchi metallizzati possono musicalmente battere il tempo e trionfare, ma anche sofficemente attutire le piante dei piedi scalze, qualche ripiano, dove sedersi, confrontarsi, confabulare su quello che Rocio e Yerai, sodalizio consolidato dalle prima due esperienze di questa stravolgente trilogia, decideranno di fare e offrire al pubblico, che segue rapito, ammutolito, cercando continuamente di capire e per fortuna senza riuscire a farlo, in vortice di giochi adolescenziali ricordati e reinventati sulle basi di decenni di studio matto e disperatissimo. Perché non bisogna capire, ma ascoltare; non occorre interpretare, ma lasciarsi guidare; e perché mai razionalizzare, facendo ricorso a tutte le conoscenze specifiche che ognuno di noi si è fatto lungo la propria esistenza? L’epilogo è circense, spettacolare, come i fuochi d’artificio dell’ultimo dell’anno, dove il fragore delle luci smorza e cromatizza il boato degli scoppi. Ci pensano i ventagli che Rocio si è posizionata lungo la vita come Clint Eastwood fa delle sue cartucce prima dello scontro finale con i banditi che vorrebbero assalire la banca di El Paso. A parte qualche datato curioso, La Pergola è piena di sognatori, come Saverio Cona, codirettore del Festival Nutida e tutti quelli che da decenni, sulla danza contemporanea, nonostante le furibonde resistenze dell’armonica correttezza, hanno puntato le loro esistenze.
di Sara Pagnini
FIRENZE. Il Florence Dance Festival, giunto alla 36esima edizione con l’infaticabile direzione artistica di Marga Nativo e Keith Ferrone (con il supporto della Fondazione CR Firenze), ha ospitato Stelle di domani, il progetto del Balletto di Venezia guidato da Alessio Carbone (già primo ballerino dell’Opera di Parigi) che porta in scena dodici giovanissimi ballerini internazionali provenienti dalle più prestigiose Accademie di danza del mondo: Opera di Parigi, Scala di Milano, American Ballet Theatre, Princess Grace Academy e Royal Swedish. Il Florence Dance Festival contribuisce certamente ad accrescere il ruolo di Firenze quale città che ambisce a ritrovare un suo ruolo da protagonista anche nelle arti performative. Il luogo dove questi giovanissimi artisti si sono esibiti è suggestivo: il Chiostro Maggiore della Basilica di Santa Maria Novella, con la sua sublime architettura. Il caratteristico palcoscenico circolare montato proprio al centro del meraviglioso porticato ha certamente esercitato un certo fascino sui dodici artisti, ma anche un certo timore. I ballerini sentono forte la presenza del pubblico, seduto molto vicino al palcoscenico; e di loro il pubblico vede tutto, ogni movimento, ogni espressione del viso. Non ci sono filtri, niente sipario, niente quinte, niente scenografia, nessun artifizio. Dodici eccellenze dunque, quattro su tutti. Due provengono forse dalla scuola migliore al mondo, una fucina di talenti, la Princess Grace Academy e hanno danzato insieme Il Corsaro (atto II, coreografia di Marius Petipa). Utako Takeda (ancora deve finire l’ultimo anno in accademia prima di diplomarsi) ha una dolcezza tutta orientale nelle braccia, nel volto, nello sguardo e una solidità granitica nelle gambe; un sorriso garbato in volto come se non stesse facendo niente di complicato; prima di un passo particolarmente difficile prende un respiro un poco più lungo e lo soffia piano dal naso, giusto per dare maggiore ossigeno ai muscoli capaci di equilibri e pirouettes da grande étoile. Hector Jain, che si è già fatto abbondantemente notare al Prix de Lausanne questo inverno e che inizierà la sua carriera a settembre all’Opera di Parigi, è una meraviglia; diciotto anni, di origine statunitense, ha un viso perfetto e riccioli neri che non si scompongono nemmeno quando salta, tanto il suo salto è felpato e morbido quanto alto e potente. Paloma Livellara, argentina, che ha danzato Human, una coinvolgente coreografia di Yannick Lebrun; ballerina morbida, sinuosa e allo stesso tempo estremamente dinamica, con un forte ritmo. Audrey Tovar Dunster che ha danzato Don Quichotte (atto III, coreografia Marius Petipa) con un eccellente partner, Max Barker. Audry mi ha incantata. Un uccellino non ancora uscito dal nido, dato che ha solo sedici anni (la più giovane del gruppo) ed è ancora allieva presso la American Ballet Theater School, con un carisma sorprendente. Audry ha fatto diversi errori soprattutto durante il passo a due, paradossalmente dovuti al suo enorme talento, alla sua esuberante forza e energia che ancora non sa tenere a bada. Ha preso un equilibrio con troppo impeto, ho pensato che non l’avrebbe tenuto; lei ha abbassato un poco la gamba in arabesque, l’ha rialzata, ha spinto in basso il braccio alla seconda per rimettersi in asse, ha mantenuto il sorriso, indurito lo sguardo ed è rimasta lì per il tempo richiesto dalla coreografia, regalando passione e grinta a piene mani. Con mia somma gioia, ho visto andare in scena l’arte che sboccia, l’energia dilagante, l’ingenua sfrontatezza, la forza biologica di chi danza ed ha appena venti anni.
di Sara Pagnini
FIRENZE. Sabato 21 giugno al Teatro Cartiere Carrara (Firenze), si è tenuto un piacevole incontro con Alessandro Macario e Clarissa Mucci che hanno ricevuto il Premio alla Danza Max Ballet Academy (giunto alla settima edizione), Accademia diretta da Massimiliano Terranova e Gianluca Daziano che questo anno celebra il suo trentesimo anniversario di attività. Il premio, precedentemente consegnato agli ex primi ballerini del Maggio Musicale, Luciana Savignano, Viviana Durante, Mario Marozzi, Pompea Santoro e Marco Pierin, vuole omaggiare chi con sacrificio e serietà si è fatto strada nella danza e chi quindi diviene un esempio e una fonte di ispirazione per i giovani allievi che si stanno formando. Alessandro Macario è un giovane napoletano verace, dalla battuta pronta, nonché (per la cronaca) fidanzato di Anbeta Toromani, ballerina albanese diventata molto nota (anche perché molto brava) in seguito al programma Amici di Maria De Filippi. Alessandro a quattro anni è affetto da scoliosi, il medico consiglia lezioni di ginnastica (manco a dirlo, lui, voleva solo giocare a calcio), mamma però non avendo molte possibilità economiche lo manda a lezione di danza dallo zio, per l’appunto ballerino del Teatro San Carlo di Napoli; e così nasce un talento. Ha danzato per i principali enti lirici italiani, ha fatto parte della Compagnia del Teatro alla Scala, danzato per l’Opera di Roma e per il San Carlo di Napoli ed è stato solista del Teatro Comunale di Firenze sotto la guida di Elisabetta Terabust, esibendosi nei principali teatri del mondo. Clarissa Mucci, invece, anch’essa premiata questo anno, è un’insegnate di danza classica di chiara fama, formatasi grazie ai più noti maestri del panorama nazionale e internazionale come Irina Trofimova, Derek Dean, Elisabetta Terabust. Concordo pienamente con ciò che ha detto, ovvero che gli allievi vanno scoperti, ascoltati, guidati, senza farne degli automi, ma che con il talento vero si nasce. I ballerini italiani che Clarissa forma sono eccellenti, ma fuggono per lo più all’estero, dove le opportunità sono migliori e i contratti di lavoro stabili. Una triste, nota, storia. Alla fine dell’incontro sono andati in scena i numerosissimi allievi dell’Accademia Max Ballet in Alice in Wonderland. La scuola di Massimiliano Terranova e Gianluca Daziano ha aperto da poco i propri spazi alla compagnia Balletto Classico Umberto De Luca, già primo ballerino étoile del Maggio Musicale Fiorentino; certo, quando Firenze lo aveva un corpo di ballo! Quasi non ce lo ricordiamo più, ma il MaggioDanza era un’ottima compagnia, una delle migliori d’Europa. Invece di pensare magari a ricostruirne una che questa città si meriterebbe, si pensa bene di declassare il Teatro La Pergola. È ormai del tutto evidente quanto la cultura, nelle sue più ampie sfaccettature, sia ritenuta effimera e superflua in questo nostro paese.
FIRENZE. Non abbiamo le cifre per disquisire sulla danza, né le competenze. Come quasi tutti quelli – ed erano in molti – che ieri sera hanno popolato il Teatro Cantiere Florida di Firenze per la chiusura della stagione alle porte del sole e dell’estate affidata a due importanti e imponenti realtà artistiche territoriali, come la Compagnia Project 2.0 e quella del Balletto Classico U/D, scelte da Angela Torriani Evangelisti per mettere il sigillo sulla seconda stagione di Versiliadanza. E non le abbiamo nemmeno per quel che concerne la musica classica, alla quale i due saggi distinti e separati hanno affidato la cura e le sorti dei due saggi, uno affidato a Johann Sebastian Bach, l’altro a Franz Schubert. E allora di cosa scriveremo e soprattutto, perché il Florida ci ha concesso l’ingresso gratuito, addirittura accreditandoci? La Direzione artistica del Teatro non è in cerca di piaggeria, non ne ha alcun bisogno; noi, non abbiamo mai recitato il ruolo degli scendiletto e vista l’età, possiamo ormai fregiarci di esserne restati immuni. E, per appesantire ulteriormente la nostra anomala presenza in sala, aggiungiamo anche che non siamo affatto attratti dalla ferrea disciplina della danza classica, dove ogni passo deve avere una giustificazione, così come le smorfie mandibolari e del viso, per non parlare della postura dei piedi, dell’armonia degli arti superiori, della tonalità di quelli inferiori, di come ogni corpo debba necessariamente armonizzarsi con la melodia muscolare e la soavità dell’eleganza, con i capelli rigorosamente raccolti a cipolla affinché non intralcino, nemmeno da un punto di vista umorale, il rigore dei movimenti. Nonostante tutto questo, nonostante la crassa ignoranza che ci avrebbe dovuto far desistere dal chiedere di essere invitati, andare alla festa e poi prendersi la briga, che rasenta la presunzione, di scriverne, eccoci qui, a raccontarvi quello che abbiamo visto e sentito. In alcuni momenti, le emozioni, hanno giustamente preso il sopravvento sulle nostre incompetenze e all’oscuro della perfezione didattica di ogni singolo gesto, del quale non siamo minimamente in grado di fornire valutazioni oggettive e di competenza, ci siamo lasciati trasportare via, altrove, dove muoiono sintassi e disciplina, perfezione e logica, cercando di entrare nei corpi dei nove danzatori (Beatrice Ranieri – la citiamo per prima, non a caso, perché è quella che ci ha fatto più male -, Leandro Hernandes Leme, Lucrezia Cardonati, Marlene Anichini, Azzurra Accioli, Mila Augusti, Irene Nocentini, Marco Ruffoli e Alice Terranova; la foto, che ne ritrae solo quattro di loro ci è stata, gentilmente, offerta da Paolo Matteoni) e soprattutto nelle loro mire, nei loro progetti, nei loro sogni. E abbiamo pensato, memori di De Bergerac, di Michele Santeramo, quanti di loro riusciranno, nel tempo e nelle loro esistenze, a non essere il Cyrano di loro stessi, a chiedersi e darsi quello che la loro indole e volontà vorrebbero trionfassero, alzandosi dalle loro comode poltroncine per evitare, eventualmente, di essere vittime sacrificali di uno spettacolo della vita alla quale vorrebbero dare e imprimere ben latra forza e direzione. Massimiliano Terranova e Umberto De Luca, i Direttori delle due Compagnie, possono dirsi più che soddisfatti. E appagati; quello che desideravano da bambini, probabilmente, si è avverato, tra enormi sacrifici, possiamo immaginare, infinite privazioni e giornate infinite trascorse a studiare, esercitarsi, perfezionarsi. Tra le centinaia di addetti ai lavori, ieri sera, noi eravamo quelli che potevano non esserci; e della nostra assenza, nessuno si sarebbe meravigliato. Per fortuna, invece, siamo andati a vedere: nessuna delle informazioni offerte e ricevute ha impreziosito il nostro modestissimo bagaglio tecnico, che resta infimo. Ma ci siamo emozionati e approfittando della nostra posizione di privilegio, ci siamo presi la briga di raccontarvelo, per invitarvi, semmai dovesse succedervi, di andare a vederli all’opera, questi ballerini, che non sono e non vorrebbero essere Cyrano, ma nemmeno Cristiano e neanche Rossana. Aspirano a diventare Edmond Rostand e siamo convinti che qualcuno di loro ce la potrà anche fare.