di Olimpia Capitano

LIVORNO. Luce. Due sedie a fiori e la statua di un doberman di spalle. La scena – Bella bestia (prodotto da Officine cultura e con il sostegno di Regione Toscana e Armunia) - e la sua simbologia evocano una tensione interrogativa. Poi entrano due donne (Francesca Sarteanesi e Luisa Bosi), con movimento frenetico, quasi nevrotico e iniziano a parlare, parlare e ancora parlare. È una cascata di frasi, aneddoti, considerazioni quella alla quale si assiste al Nuovo Teatro delle Commedie, a Livorno, nella rassegna Little Bit Festival, dedicata ai nuovi linguaggi contemporanei. Un saltare dall’uno all’altro argomento che ancora preserva quella stessa tensione interrogativa che non si scioglie, ma viaggia insieme ai dialoghi delle due protagoniste, mentre il numero dei doberman in scena cresce quasi senza che tu te ne accorga. Prima giràti di schiena, poi verso di noi, poi accerchiano la scena stessa e poi tornano in schiera, quasi a dividere l’atto dall’osservatore: bestie che guardano, minacciano, proteggono o semplicemente stanno.

I dialoghi continuano a incalzare: si passa da considerazioni su ansia, frustrazione e sessualità, al racconto di episodi che spaziano dal masochismo nella scelta di comprarsi del gelato per tenerlo in frigo, anche se lo si odia, all’ingovernabilità di pensiero e percezione, che ti fanno sembrar merlo bianco una gallina. La dimensione tragicomica si fa sempre più evidente, scandita da registrazioni vocali figlie di tinder, tanto ridicole quanto desolanti e da racconti inframezzati da balli e twerking un po’ goffi, su musiche reggaeton che ricordano le atmosfere di Cuba, dove le due donne tengono a dirci di essere le uniche a non essere riuscite a farci sesso. Il non senso che conduce questo scambio dall’inizio alla fine del confronto rappresenta tuttavia quanto di più logico nel tentativo di mostrare una quotidianità che, immersa nella prassi casuale della vita, si sviluppa un po’ sconnessa lungo frammenti esperienziali separati ma comuni a chiunque stia nel mondo. È il caso che governa la vita e ti trovi a raccontarlo, portando con te tutte le nevrosi che ti ha fatto sviluppare, ma anche con un tocco di sarcastica malinconia. E mentre la vita scorre il dolore ti colpisce e si inserisce nella quotidianità, prima come una piccola ombra che si insinua nei tuoi spazi vuoti recando un martellante fastidio; poi come un enorme mostro, che ormai ti accompagna e fa parte di te, in un rapporto duale tra la frustrazione e l’affezione. È la domesticità del dolore unita alla sua bestialità. Sono i doberman che aumentano intorno a te, lo sai, ma neanche te ne accorgi e in fondo un po’ ti piace. Che sia un dolore che vien da dentro, come quello che porta con sé la malattia, o che sia un male portato da fuori, come ciò che ti suscita la fine di un amore; la sostanza è diversa, la sensazione è comune. È una bella bestia che un giorno arriva e si piazza lì per poi decidere di accompagnarti, sempre e ovunque, a volte silenziosa e poco ingombrante, a volte chiassosa; si nasconde, poi ricompare e non ti dà pace. E mentre cerchi di prenderne atto e di lavorare sulla costruzione di un nuovo equilibrio fittizio e precario, di addomesticarla, un giorno lei gira la testa all’ improvviso e ti porta via una mano. Ma le autrici ci vogliono ricordare che in tal caso non si caccia la bestia, la si carezza con l’altra mano per continuare a portarla con noi, alla scoperta di ciò che la vita è e noi con essa, con e attraverso i nostri dolori.

Pin It