di Mailè Orsi

CARRARA. Atene, 399 a.C. Socrate muore. Accusato dalla città di empietà e corruzione dei giovani, viene condannato a morte, accetta la condanna, beve il veleno. Socrate muore e la sua è una delle tante morti ingiuste della storia. Molto inquietante. Socrate non sopravvive. O forse sì? Socrate sopravvive in almeno due modi. Primo, per la scelta di rimanere coerente con se stesso, con la sua legge (come si può convivere con un nemico, dentro di noi?); secondo, sopravvive nella filosofia, nella storia dell’umanità, attraverso Platone. In Socrate il sopravvissuto come le foglie (Teatro Animosi, per la regia di Simone Derai e Patrizia Vercesi, dall’omino romanzo di Antonio Scurati, produzione Anagoor, co-produzione Festival delle Colline Torinesi e Centrale Fies, con Domenico Santonicola (Socrate), Piero Ramella (Alcibiade), Francesco Berton, Marco Ciccullo, Saikou Fofana, Giovanni Genovese, Elvis Ljede, Jacopo Molinari, Piermaria Muraro, Massimo Simonetto) si ipotizza, in un certo senso, un altro modo per farlo sopravvivere. Scopriamo una terza possibilità grazie al cortocircuito fra il romanzo Il sopravvissuto di Antonio Scurati e gli innesti liberamente ispirati ai Dialoghi di Platone (il Fedone - in cui si assiste alle ultime ore di vita del maestro - e l’Alcibiade Maggiore) e a Cees Nooteboom (scrittore e drammaturgo olandese nato nel ‘33).

I Dialoghi platonici prendono vita nel video, in una forma in bilico fra il teatro (con tanto di utilizzo di maschere) e una specie di film muto (video muto e audio ricreato dal vivo); i due universi così lontani nel tempo e le due vicende - quella di Socrate e quella del professor Andrea Marescalchi, protagonista del romanzo di Scurati - finiscono per sovrapporsi, mescolarsi, come se in fondo si trattasse della stessa storia, che si sviluppa in modi differenti, come su una superficie oleografica e iridescente, sulla quale è visibile un aspetto o l’altro a seconda di come si inclina la carta. Una fusione che potrebbe sembrare ambiziosa e vagamente arrogante, e che al contrario si dimostra lineare e scorrevole, come frutto di un innesto naturale. Socrate il sopravvissuto è un meccanismo complesso, in cui tutti gli aspetti sono connessi, sul piano della costruzione e su quello del significato. Tutti gli elementi - testi, immagini, azioni - si intrecciano a costruire una nuova grande riflessione sul senso dell’educazione, sull’esercizio del potere (nella relazione educativa, e fra individuo e società - attraverso la scuola), sul ruolo della cultura, e sul dialogo attraverso i secoli fra gli uomini di pensiero. Tutto è intrecciato a comporre una grande domanda sul bene e sull’azione giusta, ad analizzare, a ragionare, a interrogarsi. Toccare un aspetto comporta approfondirne un altro. Una tessitura di fili che restituisce l’immagine ipotetica di una nuova e sovversiva Repubblica. Platone scrive uno dei suoi Dialoghi più importanti, La Repubblica, immaginando un’utopia, una società in cui l’ingiustizia della morte di Socrate non sia più possibile. In Socrate il sopravvissuto il discepolo si sveglia e non immagina un’utopia. Lo studente, risvegliato e scioccato, spara contro il sistema ingiusto: perché ingiusto è il sistema educativo che umilia, vessa e spegne gli umani. Diverso è il comportamento dei discepoli (Platone vs Vitaliano) e diversi sono i maestri, sebbene accomunati dall’interesse per la sorte dei loro allievi: Marescalchi è un Socrate disilluso, vagamente nichilista, spezzato, addirittura menzognero pur di preservare la spinta verso la crescita dei suoi studenti. Lo spettacolo presenta diversi cortocircuiti fra antico e presente, anche se si potrebbe osare e affermare che tutto ruoti intorno alla battuta centrale, ovvero alla chiusa dell’Alcibiade Maggiore: Alcibiade: È così, e incomincerò da ora a prendermi cura della giustizia. Socrate: Vorrei che tu giungessi al termine. Ma ho paura non perché non abbia fiducia nella tua natura, ma perché vedo la forza della Città, e temo che essa possa avere il sopravvento su di te e su di me. Intorno alla dinamica della ribellione alla Città si gioca lo switch fra le due vicende. Una ricerca simbolizzata, da un lato, da Socrate che accetta le scelte della Città, e che per essere giusto e coerente con la sua propria legge sceglie di morire; dall’altro, dallo studente Vitaliano Caccia che si ribella alla città, attuando egli stesso un massacro. Conosci te stesso, recita l’oracolo di Delfi. Qual è l’azione giusta? Come può essere giusta l’azione dell’uomo che rifiuta di interrogarsi e di conoscere se stesso? È giusta l’azione di chi con le mani sporche di mediocrità, rassegnazione, ignoranza, violenza, pretende d’insegnare ai ragazzi cosa è bene o male? È giusta l’azione che li obbliga a vergognarsi di sé? È giusta l’azione della scuola, della società, che pretende corpi disciplinati e menti conformate? Tuttavia Socrate fallisce (e con lui l’Occidente): fallisce perché il suo lavoro di insinuazione del dubbio e di ricerca autonoma è insopportabile per l’uomo medio (ed è spesso fatale per l’uomo che osi cercare), ma soprattutto fallisce nel credere che sia la razionalità la virtù dell’uomo, e che il male risieda nell’ignorare cosa è bene. Su questo punto, nello spettacolo, avviene uno dei grandi cortocircuiti fra antichità e contemporaneità, fra Socrate e Marescalchi, tra la fiducia di Socrate nella razionalità e l’elenco dei morti nei genocidi del Novecento. Se infatti seguiamo la lezione di Adorno e Horkheimer, un evento come l’Olocausto e la devastazione nazista non fu che l’apoteosi aberrante della razionalità: sistematica, efficiente, efficace nel raggiungimento del bene. Perché, ironia della sorte e dell’umano, come spiegava Socrate ad Alcibiade, ognuno ha un’idea di che cosa sia il bene e in nome di quello attua delle scelte, combatte ed entra in guerra. Se già Euripide criticava la fiducia di Socrate nella razionalità (e nelle sue tragedie tentava di indagare le ragioni nascoste dell’agire umano sottovalutate dal filosofo), oggi, dopo che la razionalità ha dimostrato la sua aberrazione, lo scandalo e il rifiuto di Vitaliano Caccia di fronte all’interminabile elenco di morti sono del tutto condivisibili. Possibile che non ci sia alternativa al massacro? Qual è la via di uscita? Cosa è più auspicabile? Che muoia Socrate, il tafano di Atene, o che muoia la Città, in quanto fonte di violenza e inganno? I nuovi rappresentanti della Città muoiono. Socrate/Marescalchi il corruttore ha trasformato il giovane. Lo ha reso un assassino. È colpa tua, punta il dito Vitaliano. Tutto sommato la Città aveva ben ragione a volere morto il filosofo. Le scene contemporanee, da Scurati, sono domande e commenti a ciò che accade prima, dopo e da sempre: sono riflessioni sul ruolo della conoscenza, dell’onestà e dell’impegno di chi ha a cuore il destino dei ragazzi. Le sequenze all’apparenza sono di interpretazione non immediata, poco comprensibili, con i loro gesti rallentati, i pattern che si ripetono, i movimenti di difficile lettura. Tuttavia lasciandoci ispirare li vediamo come metafore: metafore, ad esempio, del senso della cultura (come dialogo fra menti e cuori, nello spazio ristretto dell’aula e nello scorrere del tempo lungo i secoli) ma anche della morte, quella quotidiana e triste di ogni giovane in balia della scuola, e quella violenta del finale. A tutto questo ci fanno pensare i libri pieni di acqua e quelli pronti al macero: ai secoli di impegno, alla materia grigia e al sangue di poeti, filosofi e letterati, e allo stesso tempo al sangue e alla materia grigia dei professori uccisi da Caccia nel finale. Così, anche la lunga scena iniziale in cui gli studenti lentamente si accasciano nei banchi è la visione di una duplice morte: dell’anima del giovane che frequenta la scuola, e degli insegnanti che saranno uccisi alla fine. L’anno nuovo ricomincia a settembre e lì termina lo spettacolo, sospeso su quel settembre 2001, che non può che significare anche 11 Settembre. Una data già diventata storica: una nuova prova sottile e perversa della corruzione e della violenza della Città? O il gesto di ribellione di chi è sottomesso? Questo rimando all’11 Settembre lascia un po’ perplessi, come un finale al ribasso: dopo aver iniziato col carico massiccio del numero di vittime dei genocidi di massa, questa data - con tutto il rispetto e la considerazione dovuta agli innocenti che sono morti - appare parte di un gioco politico relativamente piccolo. Una porta spalancata a disperdere energia. O forse è il segno di una nuova evoluzione del pericoloso gioco di dominio della Città? Anche l’uso del video per le scene tratte dai Dialoghi platonici risulta poco efficace. Nonostante marchi bene la distanza e la differenza fra due mondi distanti, serve del tempo per abituarsi a questa soluzione, e vi si sperimenta la minor potenza del video rispetto alla forza della scena viva. Per finire, un ultimo cortocircuito e un’ultima domanda, anche qui nel punto di incontro fra le due linee di fuga che hanno come origine Socrate e Marescalchi: il “vesti la giubba” di quest’ultimo e il togliere la maschera dell’attore che interpreta il filosofo sono finzione? Di che tipo? Fingere la felicità per il bene degli studenti? Fingersi liberi? Essere felici davvero? Morire? La maschera ci rivela che il dialogo non era che teatro. E che quel Socrate allora non era che…?

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