di Saverio Cona
SOLO L'AMARE, solo il conoscere conta, non l'aver amato, non l'aver conosciuto (Pier Paolo Pasolini). Cristina Pezzoli era una grande personalità e una persona buona. La conoscevo sin dagli anni ‘80. Poi, per me, la morte è sempre una sorpresa, anche se solo la morte è certa. Si fa fatica a descriverla con la sola parola: regista; era piuttosto una vorticosa, tenacissima animatrice culturale di una stoffa sopraffina di cui solo i poeti ne sono intessuti. Aveva una propensione inesauribile, quasi stupefacente, per il sottotesto e quando avviava una nuova iniziativa questa diventava una sorta di viaggio: era capace di non degnarsi della realtà e delle sue leggi per andare avanti nel suo viaggio, lasciandosi abbracciare e trascinare dal viaggio stesso per non contrastarne l'evoluzione. Quasi un processo di purificazione. Nell'affrontare gli spettacoli della tradizione teatrale ho sempre notato che il suo punto di partenza era l'assunzione di un tempo ben definito (il passato) in cui le produzioni precedenti che sono andate in scena hanno espresso un evento già avvenuto. Poi iniziava il viaggio nell'irrealtà privo di compromessi, ripetute metafore e l'interpretazione attraverso la vista, l'immaginazione, il sogno, ma soprattutto le sensazioni completamente soggettive che vanno al di là del testo e che probabilmente non si possono descrivere, né catalogare in quanto parte di un mondo intimo che non possiamo studiare, ma di cui possiamo usufruire. Ho visto Cristina capace di rovesciare il proprio astio verso tutto ciò che la disgustava: burocrati; grettezza, luoghi comuni, con la sfrontatezza di un adolescente che non ha paura di dire e di procurare imbarazzo.
Non si sottraeva al ripugnante e, se necessario, se ne faceva cantore, spesso con accostamenti geniali di bruttezza e bellezza, dilatando al massimo le possibilità convenzionali del linguaggio. La sua, in fondo, era una tecnica di montaggio. Anima del montaggio è il taglio, l’ellissi. Nell’ellissi giace il non detto, come nel pane il lievito, come il seme. Oppure, se vogliamo, una ricerca del tempo propizio, del tempo opportuno, del tempo che permette, attraverso correzioni e sfumature a decine e poi centinaia, ogni volta diverse. Un tempo come il Kairos della mitologia greca: raffigurato come un giovane con le ali sulla schiena e ai piedi, che regge una bilancia che egli stesso con un dito disequilibra, con un ciuffo di capelli sulla fronte e la nuca rasata, a indicare la difficoltà ad afferrarlo. Kairòs è il tempo non vuoto, un’opportunità che qualcuno fuori dal tempo ti dona. È l’opportunità di incontrare l’aldilà del tempo nel nostro tempo. Come divinità Kairòs era un semisconosciuto, mentre Kronos era considerato la divinità del tempo per eccellenza. E così nella nostra società, abbiamo aderito solo al secondo e abbiamo completamente dimenticato il primo. Che è rimasto ad appannaggio quasi esclusivo dei poeti, dei nostri simili più curiosi, determinati o visionari. E Cristina era una di questi. E lo dimostrava pure con il suo interesse civico, con la necessità di mostrare le contraddizioni raccontando il presente, testimoniando il presente con l'attenzione, ad esempio, ai problemi sociali dei nuovi italiani. Un’attenzione che pochi altri hanno avuto e che abbiamo tutti perduto, perdendo una donna preziosa che, citando Arthur Rimbaud, ci ha lasciato leggera come farfalla a maggio.