di Olimpia Capitano

LIVORNO. Domenica sera, al teatro Goldoni, si è conclusa la rassegna teatrale promossa dal Nuovo Teatro delle commedie, il Little Bit Festival, alla sua X edizione. Lo spettacolo conclusivo andato in scena èsstato il pluripremiato Macbettu, tratto dal Macbeth di William Shakespeare, ideato e diretto da Alessandro Serra (interpreti: Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino; traduzione in sardo e consulenza linguistica: Giovanni Carroni; collaborazione ai movimenti di scena: Chiara Michelini; musiche: pietre sonore Pinuccio Sciola; composizioni pietre sonore: Marcellino Garau; tecnico della luce e Direzione Tecnica: Stefano Bardelli; tecnico del suono: Giorgia Mascia; regia, scene, luci, costumi: Alessandro Serra; produzione: Sardegna Teatro, in collaborazione con compagnia Teatropersona; distribuzione: Danilo Soddu; con il sostegno di: Fondazione Pinuccio Sciola e Cedac Circuito Regionale Sardegna). Se già la pièce, visionaria e coinvolgente di per sé, ha creato un’atmosfera densa e immersiva, il contesto non è stato da meno: durante l’ultima sera in cui, almeno per un mese, è stato possibile condividere lo spazio aperto del teatro, l’intensità emotiva è stata trasversale, segnando nello stesso atto della partecipazione l’importanza di un momento empatico e corale, che i 4 minuti di applausi finali non hanno fatto altro che confermare.

Resta dunque dell’amaro, condiviso da tutto il settore culturale e dello spettacolo, vivamente sentito anche da tutti i suoi assidui fruitori, solidali rispetto alla rinnovata e confermata condizione di fragilità di un settore di per sé poco valorizzato, che in questo frangente si ritrova a scontrarsi contro uno dei trasversali mali della contemporaneità: la precarietà di lavoro e dunque di vita. Al netto di ciò e nonostante la relativa condivisibilità di alcune scelte, specie se rapportate a un’assenza di limitazioni su altri fronti, ben meno sicuri ma senz’altro più rilevanti nel quadro della massimizzazione dei profitti (e di nuovo della socializzazione delle perdite), con ieri si è conclusa la lenta ripresa culturale in atto da pochi mesi, ma indicativa di un fermento espressivo ricco e vivo, in tutta Italia e in modo particolare anche a Livorno. Restano forti l’auspicio e la speranza affinché tale urgenza comunicativa possa trovar presto possibilità, canali e soprattutto sostegno (tanto culturale quanto economico). In modo sorprendentemente conforme a quanto il momento delicato richiede, lo spettacolo ieri andato in scena è riuscito a creare un altrove spaziale e temporale ricco di rimandi e denso di significati, che sottolinea con vigore la forza del buon teatro, capace di immergerti in narrazioni lontane legate a doppio filo alle riflessioni sull’oggi. Il nesso che si è creato è quello tra evocazione, immaginazione e realtà delle cose; tra passato e presente, specialmente pensato come lettura del passato, delle nostre eredità e genealogie storiche, culturali e tradizionali, interpretate attraverso il filtro dell’esigenza del presente. Macbettu è una proposta audace e quantomeno visionaria che traspone il Macbeth di Shakespeare in un’immaginaria Barbagia, lavorando su suono, gestualità, linguaggi corporei e sulla lingua in senso stretto: l’intero spettacolo è recitato in sardo, accompagnato da sovratitoli in italiano. Questa scelta non solo non rende difficoltosa la fruizione, ma diventa elemento sia estetico che drammaturgico cardinale. Le voci si fondono con sonorità ancestrali affidate sia a precise sonorizzazioni, che all’utilizzo di strumenti quali lamiere, campanacci, catenacci, che rendono un suono vivo e immergono lo spettatore in un qui e ora che si lega agli echi di una qualche dimensione originaria, fuori dal tempo, dentro l’umano. Il riferimento testuale viene integralmente valicato, pur mantenendo le linee sostanziali dei messaggi evocati. Si superano i confini della Scozia medievale per riprodurre un orizzonte poroso, fatto di archetipi e pulsioni dannatamente umane. La maestria degli attori in scena – tutti uomini nel rispetto della tradizione elisabettiana e quasi a rimarcare questo fil rouge che lega attualità e genealogie - e la cura scenografica creano una realtà tanto immersiva quanto spiazzante. Il dinamico alternarsi di quadri sembra evocare un intreccio tra la profonda intensità perturbante di un Caravaggio e la pregnanza sociale di un Guttuso. La fissione di attimi presenti e vivi. Il teatro si annulla in un universo che ti assorbe, portando la percezione soggettiva a sciogliersi in una matrice di condiviso primordiale. Si parla di passioni, invidie, vendetta, amore e odio, vita e morte, realtà e misticismo, arbitrio e destino. Si parla di quanto già Shakespeare avesse saputo condensare entro una narrazione attraversata da pulsioni e comprensione dell’umano, ma la scommessa di creare una nuova semantica legata alla cultura tradizionale della comunità nuragica porta a riscoprire identità primordiali, evocate dall’onirismo del mondo isolano, senza alcuna forzatura. La simbiosi che si crea tra la rudezza linguistica e la crudezza di una scena materica e di impatto diventa quasi armoniosa. Questa sa condurci tra tenebre di conflitti e contraddizioni che si perdono nella notte dei tempi, oltre i limiti del visibile, oltre i limiti del linguaggio. Ci porta verso un altrove dionisiaco così naturale, rifiutato e non accettato nella narrazione normativa, in cui fa paura riconoscersi, ma che Serra ci presenta con una chiarezza disarmante, che risuona nell’eco di sghignazzi sinistri, nel frastuono di lamiere per poi sfumare in una luce fioca e opalescente, che ci riporta nel (nostro) buio.

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