di Francesca Infante
PISTOIA. Sorrisi azzurri, coperti ma presenti. Fervore nell'aria. Emozione e gioia di tornare a sedere su quelle poltroncine di velluto rosso, spettatrici perpetue di spettacoli mai andati in scena, rimaste sole per tanto – troppo- tempo. Il teatro, signora anziana, forse un po' sola e triste ultimamente, torna ad indossare le sue vesti vellutate. Riparte lo spettacolo dal vivo. È andato in scena sul palcoscenico del Teatro Manzoni di Pistoia (sabato 15 e domenica 16 maggio), Furore, tratto dal romanzo di John Steinbeck, ideato e realizzato da Massimo Popolizio. Il capolavoro della letteratura americana del secolo scorso vede l'adattamento per il teatro firmato da Emanuele Trevi e la presenza del percussionista Giovanni Lo Cascio ad accompagnare la voce dell'attore; coprodotto dalla Compagnia Umberto Orsini e dal Teatro di Roma – Teatro Nazionale. Nell’estate del 1936, il San Francisco News chiese a John Steinbeck di indagare sulle condizioni di vita dei braccianti sospinti in California dalle regioni centrali degli Stati Uniti, soprattutto dall’Oklahoma e dall’Arkansas, a causa delle terribili tempeste di sabbia e dalla conseguente siccità che avevano reso sterili quelle terre coltivate a cotone. Il risultato di quell’indagine fu una serie di articoli da cui l'autore americano generò, tre anni dopo, nel 1939, il romanzo Furore.
Quello a cui assisterete è il racconto di come John Steinbeck trasformò quella decisiva esperienza giornalistica, umana e politica in grande letteratura. Partiamo dalla fine, gli applausi. Commozione e applausi li circondavano, e poi un gesto bellissimo: Massimo Popolizio che, con estrema dolcezza e gratitudine, ringrazia il percussionista Giovanni Lo Cascio, con una carezza sulla nuca e un sorriso. Questo è l'artista che ha portato sul palco uno dei romanzi più importanti del novecento. Lasciando riposare i personaggi dentro le loro righe, Massimo Popolizio porta in scena degli estratti del capolavoro di Steinbeck seguendo cronologicamente le pagine. Come un cantastorie, ci parla di una sofferenza che sembra lontana, ma non lo è. Proiettate dietro di lui, le fotografie di Dorothea Lange; intorno a lui, la semplicità della scenografia e quel percussionista che da un suono alla parole. Lui, narratore onnipresente ed empatico, riesce a trasportarci in mezzo a quei campi pieni di polvere. In un attimo sei a caricare su una vecchia macchina mal ridotta quei pochi averi che ti servono per sopravvivere, e guardi la tua casa che viene distrutta da un trattore. La tua vita non vale più nulla. Hai fame e vedi morire i tuoi figli di stenti. Massimo Popolizio, personificazione empatica di un romanzo, è come un padre che racconta una fiaba. Una di quelle piene di odio, sofferenza e ira. La sua voce ci guida tra quelle ambientazioni dettagliate, i cambi di tonalità e accento ci fanno scorrere da una riga all'altra del romanzo. Ed emerge tutto, tutta la sofferenza, paura, passa attraverso quell'uomo sul palco e si riversa su di noi. Ci sussurra nell'orecchio tematiche sociali che dovrebbero sembrarci familiari, che ci circondano ancora oggi, nonostante siano passati ottantadue anni dalla pubblicazione di Furore. Quei maledetti Okie sono sporchi e ignoranti. Sono maniaci sessuali, sono degenerati. Quei maledetti Okie sono ladri. [..] Sono sporchi, portano malattie. Non possiamo lasciarli entrare nelle scuole. Sono stranieri. Ti piacerebbe veder uscire tua sorella con uno di quelli? - Furore, 1939. Fateli tornare indietro che la strada è più breve o lasciateli al loro destino, magari in questo modo iniziano a capire di starsene a casa propria. Ci vogliono i fucili. Finché trovano delle indegne vacche bianche disposte a farsi montare. Che schifo ca**. Ma chi ca** gli ha detto di partire? Sei tu che metti in pericolo i tuoi figli partendo su quelle bagnarole... ma chi ca** vi ha obbligato vorrei saperlo. Pagina Instagram, Un razzista al giorno, 2021. Steinbeck ci ha descritto come non dovrebbe essere trattato nessuno; Massimo Popolizio ha dato voce a chi non ne ha, portando in scena parole che non riguardano solo il passato, ma che ci circondano tutt'ora. Ottantadue anni, ed ancora l'odio, l'indifferenza, la paura irrazionale condizionano la società, spingendo a godere della morte di una persona, perché percepita come diversa. Come è possibile che un tale odio sia ancora così radicato nella società contemporanea? Come si può augurare la morte a persone che scappano dalla sofferenza, dalla povertà e lo fanno in condizioni tremende? Vivere una vita dignitosa è un diritto dell'essere umano, non un privilegio di chi è nato nella parte giusta del mondo. Grappoli di odio crescono e mettono le radici sempre più in profondità. Sorrisi azzurri coprono i volti, ma gli occhi parlano. La cultura non va fermata. La cultura genera riflessioni, idee, apertura e tolleranza, ma soprattutto empatia. E l'empatia può salvare il mondo. L'odio può farci marcire.