PISTOIA. Ognuno ha fatto come meglio ha potuto. La prima quarantena forzata e forzosa della storia dell’umanità tutta (teniamola a mente; non è detto che non si ripeta) ha generato, oltre che (im)motivate paure incontrollabili, anche una serie di impensabili anticorpi. Durante quegli interminabili cinquantanove giorni di totale isolamento, Alessandro Benvenuti ne ha approfittato per continuare a fare quello che gli riesce meglio: gigioneggiare. Panico ma rosa, diario di un intubabile, alla Fortezza Santa Barbara di Pistoia (si replica stasera, alle 21,15) sono gli appunti presi da un veterano dello spettacolo nella sua abitazione romana, dove vive con moglie e figli e portati in scena in attesa che il teatro e il mondo dello spettacolo si rimetta davvero in moto. E visto che lezioni di come stare sul palcoscenico l’ultra settantenne fiorentino (dopo mezzo secolo trascorso tra la televisione, il cinema, il teatro e il cabaret) può non prenderle da nessuno e darle, brocciolare lo stupore da dove vengano quegli imbecilli dei 33 trentini che trotterellano su Trento e da lì seguire un filo conduttore di nonsenso fino alla liberazione è puramente un gradevole e simpatico esercizio per come mantenersi in forma.

E così è stato lo spettacolo, nel quale, chi più, chi meno, non ha potuto non riconoscersi: i bombardamenti televisivi dei virologi, le commoventi canzoni cantate dai terrazzi di interi quartieri per riuscire a superare la paura, la tristezza e la solitudine, gli improvvisati e improbabili runner, la fortuna di possedere un cane, i ricordi dell’adolescenza eucaristica, la Creazione di tutte le piante, canapa compresa, appunti carcerari con i quali l’ex Giancattivi, che da Non stop (con Athina Cenci e Francesco Nuti) a i Delitti del Barlume (in sostituzione di Carlo Monni), passando per svariate pellicole tra le quali ci preme doverosamente ricordare Benvenuti in casa Gori, è stato uno dei punti forza della comicità claustrofobica nazionale, ne ha approfittato per ricordare al suo pubblico, ma soprattutto a se stesso, di essere stato, come è successo a molti della sua generazione, comunista, salvo invecchiare, revisionare i furori giovanili, ma affermare di essere disposti a rifarlo ogni volta, se solo la vita la si potesse riavvolgere. Un’ora e mezzo di gradevole intrattenimento, sogni e bisogni, ricordi e retaggi, universalmente condito da sorrisi di compiacimento e qualche risata, fatta di gusto, non per deontologia, omaggio a uno dei comici più imponenti della scena (centonovanta centimetri, un marcantonio), così abile a districarsi con la chimica del tempo tanto da trasformare il leggio sul quale è appoggiato il copione, indispensabile per sopperire, eventualmente, a inesorabili blackout, in un simpatico suppellettile scenico, al quale fare ricorso ogni tanto, un tormentone.

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