PISTOIA. Si può dare un nome alla bellezza? E, ancor prima e forse di più, la bellezza è titolabile? Dubitiamo da sempre, in particolare al cospetto della danza. Senza mettere lontanamente in discussione gli intenti coreografici di Michele Di Stefano, che si è preoccupato e occupato di scriverlo, sul foglio di sala, quali fossero, siano e saranno i suoi intenti nel mettere in scena Bayadere – Il regno delle ombre. Le cose che abbiamo visto noi, al Teatro Manzoni di Pistoia, ci hanno raccontato e descritto tutta una serie di emozioni e informazioni che spesso, a stento, siamo riusciti a collegare con quello che Cristina Bozzolini, direttore artistico del Nuovo BallettO di ToscanA ha voluto ed è riuscita perfettamente a somministrare ai suoi dodici ballerini, che si sono interfacciati e dati il cambio, con esemplare sincrono e affiatamento, sul palco spoglio della struttura, sul quale, gli unici spazi ammessi, pare dovessero essere proprio le ombre. Detto e scritto così, sembra che da parte nostra, spettatori, come ripetiamo fino alla nausea, ultra privilegiati, sembrerebbe quasi che sulla rappresentazione avessimo voglia di fare alcune obiezioni tese a sminuire il mastodontico impianto recitativo di Lisa Cadeddu, Matteo Capetola, Carmine Catalano, Alice Catapano, Beatrice Ciattini, Matilde Di Ciolo, Roberto Doveri, Veronica Galdo, Aisha Narciso, Aldo Nolli, Nicolò Poggioni e Paolo Rizzo.

È esattamente vero il contrario. Sotto una pioggia battente, cupa, invernale, si è aperta la scena e fino al successivo nubifragio, che pareva abbattersi su catapecchie scampate alla distruzione, ma forse non più abitabili, i dodici ballerini, vestiti (da Santi Rinciari) in grigio/nero, tutti muniti di calzini corti, del medesimo cromatismo, non hanno dato tregua a loro stessi, al pubblico e al motivo dell’atto unico per il quale si sono preparati. La tentazione, che puntualmente ci assale quando siamo investiti da una carica emozionale tanto intensa, senza però riuscire a decifrarne i contenuti, sarebbe stata quella di sondare, grazie alle spiegazioni che ci avrebbe sicuramente offerto Saverio Cona (direttore tecnico e di scena), se le nostre intuizioni, empiriche fino all’eccesso, avessero in qualche modo a che fare con quello che avevamo visto. Anche con Giulia Roggi (responsabile luci), minimamente indispensabili e nemmeno abbastanza per creare quel gioco di ombre che crediamo debbano essere il fulcro dell’opera, ci saremmo potuti confrontare, o chiedere conferma a Ludwig Minkus, che ha giocato, con la stessa psichedelica attenzione degli altri, con la musica, o con quella originale di Lorenzo Bianchi Hoesch. Le pochissime cose che siamo riusciti a decifrare compiutamente appartengono all’universo dell’indiscutibile, perché sono i gesti rituali con i quali, ognuno dei dodici, prima di dare vita e sfogo al proprio numero, ha eseguito meccanicamente: collegare, con oscillazioni nervose e psichiatricamente interessanti, la scatola cranica all’inizio dell’esibizione; articolare le braccia in quattro movimenti ripetuti due volte e incamerare quanto più ossigeno possibile per non dover sottoporsi, all’impellenza, di respirare. È sembrata la parola d’ordine, la chiave d’apertura della scatola magica nella quale e dalla quale i dodici protagonisti sono nati, usciti e rientrati. Un saggio classico, geometrico, dove il fattore dominante sembra essere il desiderio di continuare a vivere. Nonostante tutto. È stata una serata ricca di equilibri, passioni, esercizi, languide perfezioni, con le fasce muscolari del corpo dei dodici protagonisti sistematicamente tese, anche quando, passeggiando con rigore militare, uscivano e entravano dalla scena, benedicendo i compagni che incrociavano affinché anche il loro esibirsi aggiungesse ulteriore linfa alla causa primaria e collettiva. In sala, lo zoccolo duro delle addette ai lavori, che hanno ululato, come si conviene per i balletti, la loro approvazione, la loro gratitudine, la loro soddisfazione. Di appartenere a un mondo che pare viaggiare sospeso altrove, anonimo, seppur figlio di sacrifici assoluti, dove la presenza è sancita dalle loro anime sospese, o dalle ombre, se preferite. 

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