PISTOIA. Sembra averne di più dei poco più dei quaranta che si porta addosso, di anni, Servo di scena. Dipenderà dal fatto che nessuno, dalla prima rappresentazione in poi, del 1981, si sia più permesso il lusso e la tracotanza di metterci un po’ le mani sopra, al testo (notevole e crudo, badate bene) e lavorarci. Così, dai tempi di Lavia, Orsini e Santuccio, passando per Gazzolo e Branciaroli, la partitura, scritta da Ronald Harwood, si ripresenta, nel 2022, nello stesso identico modo al pubblico, senza correre rischi di alcun genere e sorta. Anche stavolta, infatti, per questa prima nazionale al Teatro Manzoni di Pistoia (si replica stasera, alle 21 e domani, domenica 6 febbraio, alle 16), firmata in todo da Guglielmo Ferro (nel centenario della nascita del padre, Turi), il regista non osa alcun rischio e affida le ubbie del vecchio Sir a un marpione che di lezioni non ne prende da nessuno, Geppy Gleijeses. Ma non finisce qui, perché anche gli altri due mattatori della commedia (il fedele tuttofare, il servo di scena e la moglie dell’anziano interprete di una serie di rappresentazioni dedicate a Shakespeare) rispondono, fedelmente, ai requisiti del manierismo teatrale, Maurizio Micheli e Lucia Poli. Ma non è di questo che vogliamo parlarvi; aggiungere fieno alle lodi che nei decenni i tre protagonisti si sono guadagnati sui palcoscenici, seppur doveroso, nel dettaglio, non crediamo aggiunga linfa e lustro ai loro rispettivi palmares.
Tra il primo e il secondo atto dello spettacolo - che sarà poi l’ultimo -, durante la pausa, sotto i bombardamenti delle truppe naziste nel pieno delle atrocità della seconda guerra mondiale, la struttura teatrale gode del suo momento migliore, a nostro avviso sfruttato non proprio a dovere, con l’anziano capocomico e sue moglie Madge che rivelano, ancora una volta – e sarà l’ultima - i loro intenti; l’inguaribile protagonismo del vecchio showman, ruolo questo che gli assicura ancora, anche se tra non poche difficoltà psicofisiche, di poter assaporare, di soppiatto e furtivamente, corpi e lineamenti di giovani aspiranti attricette e l’esasperazione dell’anziana consorte, disillusa da una vita che seppur trascorsa sotto i riflettori, non le ha regalato la comodità, il tepore e gli agi che ha sognato in gioventù e che, probabilmente, se avesse fatto altre scelte, si sarebbero potuti anche materializzare. E della cocente delusione dell’intimo segretario, il servo di scena, che ha servito e riverito Sir con commovente devozione e dedizione per lunghissimi sedici anni e che lui, con immensa e imperdonabile ingratitudine, dimentica di citare tra le persone alle quali porgere un ringraziamento speciale nella sua autobiografia che cercherà, senza riuscirci, di scrivere. E l’amore muto, misto ad ammirazione, della segretaria di scena (Roberta Lucca), venti anni di palcoscenico a curare, con puntigliosa professionalità, ogni minimo dettaglio, nell’augurio che Sir, un giorno, se ne accorga, capisca e ricambi. E invece, le sue attenzioni, sono solo per la giovane aspirante attrice (Elisabetta Mirra), che giura di essere disposta a tutto pur di intraprendere la strada, tortuosa e meravigliosa, del teatro, anche facendosi palpeggiare e mostrando le gambe, così come si conviene al momento dell’acquisto di un puledro. Momenti, questi, sui quali, il teatro di allora sotto i bombardamenti e il teatro di oggi, minacciato da ordigni assai più silenziosi e apparentemente innocui, ha bisogno di dare risposte eloquenti, forti, inoppugnabili, che decretino davvero la (ri)nascita. E non può certo bastare, a fine rappresentazione, un vafanculo a tutti quelli che sono rimasti a casa a vedere Sanremo.