PISTOIA. Ci si continua a chiedere come sia mai potuto accadere; una barbarie inumana che a volte lascia così perplessi fino a dubitare che sia successo davvero. E invece, come ricordava e scriveva Primo Levi nel suo documento più prezioso sulle atrocità naziste, Se questo è un uomo, considerate che questo è stato. Ma non vogliamo aggiungere altro a quello che è tristemente noto dal giorno della Liberazione in poi; ci sono i libri di storia, i documenti, i processi e soprattutto i ricordi, incancellabili, di chi, pochissimi, riuscì a ritornare a casa. Da ieri sera, però, dopo che ci è stata data gratuita opportunità di assistere allo spettacolo al Teatro Manzoni di Pistoia, l’antologia delle inenarrabili memorie dei campi di concentramento si è arricchita di un documento, prezioso come se fosse inedito: la trasposizione teatrale dell’opera dello scrittore torinese (quest’anno, il 2019, quando è stato ideato, ignari della pandemia alle porte, ricorre il suo centenario della nascita) per mano di Valter Malosti, che in collaborazione con Domenico Scarpa ha dato vita e messo in scena due ore agghiaccianti di cronaca, con la ferma, risoluta e professionale voce di chi ha avuto in dono l’onere e l’onore di poterla raccontare. Ed è qualcosa di straordinario, nel senso più aulico che al termine possa dare quel peso storico, politico, sociale e teatrale dei quali necessitano, per esser tali, i capolavori.

Una scena affidata a un uomo che arriva, con il suo completo grigio, paletot dello stesso colore e con la sua valigia anonima sul marciapiede dell’ultima stazione ferroviaria polacca: destinazione Auschwitz. Dal centro del palco, Malosti, nelle due ore di rappresentazione, si muoverà con parsimonia e circospezione in pochissime circostanze, senza mai interrompere il racconto, gelido e sferzante, di una pagina della storia che a distanza di settant’anni ancora non si riesce a comprendere nella sua più bieca ferocia ed efferatezza, un’appassionata forza descrittiva, ma non passionale, così come si conviene agli inviati sui campi di guerra. Alle sue spalle, in assoluto silenzio, comprimari di una follia ingiustificabile e ingiustificata, appaiono e scompaiono, manichini inermi e inerti, Lucrezia Forni e Giacomo Zandonà, che potranno a loro volta raccontare di aver preso parte, giovanissimi, a una delle esperienze teatrali più importanti. È il diario del viaggio dei 650 ebrei italiani, uomini, donne, vecchi, bambini, rastrellati nell’inverno del 1943 in giro per la penisola, riuniti in Emilia Romagna e stipati, senza cibo e bevande, sul treno merci composto da dieci vagoni per l’ultimo viaggio, durato cinque interminabili giorni, verso i campi di concentramento. Sono gli appunti di un anno di prigionia, in un’inspiegabile condizione di segregazione, sopportabile e sopportata grazie a una serie di circostanze che non possono essere annoverate tra le pagine della sopravvivenza, del riscatto, della rabbia, della violenza e della speranza. Valter Malosti riesce, nei panni, nelle parole e nella mente di Primo Levi, dall’inizio alla fine, dall’arresto in Val d’Aosta al ritorno a casa, nella sua Torino, a restare nei suoi, di attore e regalare al pubblico una meravigliosa testimonianza, che va ben oltre l’archivio documentale storico, il dolore e la disperazione, l’angoscia e il nichilismo. Sopravvivere per raccontarla; raccontarla per sopravvivere, per riuscire a dare un senso e una dimensione a qualcosa che risulterà, per il resto dell’eternità, semplicemente incredibile. Vorremmo chiudere il nostro racconto pensando agli idioti che ancora inneggiano alle svastiche; non ne vale la pena. Sottolineiamo invece la perdurante latitanza del pubblico teatrale pistoiese. Il virus, seppur decisamente indebolito, continua a circolare, questo è vero, ma a Firenze e Prato, ad esempio, alla Pergola e al Metastasio, i botteghini registrano il pienone; anche lo spettacolo di Malosti merita il sold out.

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