di Federico Di Pietro

ROMA. Altro che Ultimo tango a Parigi! Questa è l’esclamazione di Palladio (nome immaginario del signore canuto seduto davanti a me) all’ennesima scena di nudo integrale della rappresentazione teatrale de La grande abbuffata, pellicola di Marco Ferreri uscita nelle sale nel 1973. Il riferimento al capolavoro di Bertolucci, del resto, non è banale. E nemmeno fuori luogo. Se tutto il mondo è pornografia, l’arte è masturbazione e il teatro erotismo. Erotica, è infatti, in parte, la pièce che il pubblico del teatro Basilica ha potuto gustare ieri sera. L’erotismo però, in questo caso, viene volutamente portato a un livello grottesco, quasi ripugnante. Se Paul (Marlon Brando) e Jeanne (Maria Schneider) rappresentano quello che, con le parole di Pauline Kael, si può definire un erotismo liberatorio, ne La grande abbuffata, il sesso è un’ulteriore dimensione di abbondanza e ingordigia. L’erotismo viene visto come un ulteriore pasto di cui abusare e di cui saziarsi in maniera quasi morbosa e parossistica. Ciò che, lentamente, diviene chiara è, forse, la netta volontà di Francesco Maria Asselta e Michele Sinisi (regia) di raffigurarci nei nostri istinti eccessivamente dionisiaci. Il pubblico ha accolto lo spettacolo e riso di gusto. Non capendo forse che l’intera opera è lo specchio delle loro vite. La scenografia rivela in parte la trama. In una cornice decisamente moderna e postindustriale, come descritta da Fabiana Rapone, i protagonisti (interpretati da Stefano Braschi, Ninni Bruschetta, Gianni D’Addario e Donato Paternoster) si rivelano essere gli stessi del film di Ferreri, ovvero un cuoco, un aviatore, un produttore televisivo e un magistrato.

Lo scopo del loro incontro? Un orgiastico suicidio. Stanchi e non appagati (forse), dalla loro vita, i quattro inseguono costantemente la morte incontrando da vicino le loro debolezze fisiche e psichiche. La decisione presa è infatti quella di causarsi la morte mangiando fino allo sfinimento, sfidandosi continuamente in una danza macabra di eccessi, risvegli e seduzioni. Cos’altro sarebbe la vita senza il sesso (non l’erotismo) e il cibo? Pensateci. Il confine stesso tra gli attori e il pubblico sembra spezzarsi continuamente, come continuamente è spezzata la rappresentazione teatrale. In un enfatico connubio di immagini e suoni, compaiono su un telo proiettato in alto sopra al palco, video e frammenti presi dal web. I temi non sono scelti a caso: la ferocia umana nell’ammazzare per assicurarsi la sussistenza materiale (del resto lo sanno anche i bambini che del maiale non si butta via niente), organizzazioni umanitarie con un capitale sociale più alto di aziende petrolifere, animali, gorilla, urla, sputi, Gino Paoli. Tutto ruota intorno a Gino Paoli. Sicuramente parte delle canzoni che nella pièce vengono eseguite. Infine torna il sesso, un sesso maniacale, selvaggio, innaturale e sodomitico. Un sesso personificato dalle 4 figure femminili dello spettacolo (Sara Drago, Marisa Grimaldo, Stefania Medri e Adele Tirante), che irrompono nella scena e portano l’ebbrezza dell’eccesso su un piano iperuranico. Un piano fatto di eccessi, di pratiche di dominio sessuale e di stereotipi. Plateale, clamorosa e necessaria è l’entrata in scena delle prime tre protagoniste (Sara, Marisa e Stefania) che personificano delle escort pagate per passare la serata con i quattro aspiranti suicidi. Le tre, infatti, irrompono sulla scena buttando giù delle pareti metalliche in un tumulto di urla orgasmiche, desiderio, necessità sessuale. Dopo ulteriori scene di nevralgia sessuale, di scontri, dopo l’incontro tra la maestra elementare (Adele Tirante) e i quattro (come i cavalieri dell’Apocalisse), l’incubo della fine si avvicina. Uno ad uno, i protagonisti vengono schiacciati dal loro corpo che, in un ultimo barlume di potenza, ha ripreso il controllo sulla loro esistenza. L’aviatore (Donato), muore congelato dal freddo a causa della sua estrema risolutezza nel guidare una vespa fuori dalla stanza del pasto. Il secondo a essere sconfitto è Ninni, affetto da flatulenza, che muore accasciandosi al suolo. Steso sul tavolo sul quale si è consumato il pasto, che risulta essere un tavolo dell’obitorio, giace il corpo di Gianni. L’ultimo ad andarsene è il diabetico Stefano, che muore gustando la panna montata appositamente spremuta sul seno della maestra (Adele). Lo spettacolo, rimarchevole e talvolta decisamente e volutamente provocatorio (come la scena di Golden Shower tra Gianni e le tre ragazze) mira a essere uno specchio del pubblico a teatro e di quello del paese. Dei monologhi che Ninni interpreta, riadattandoli o ridipingendoli in chiave moderna, spicca quello del colonnello Kurtz di Apocalypse Now. Resta da capire chi sono i vietcong. E chi è Kurtz. Un ulteriore monologo ci spinge a una riflessione ancora più contemporanea: il decadimento del vocabolario legato al mondo dell’arte. Bruschetta ricorda infatti che termini come attore, teatro, museo sono entrati nel gergo comune come termini per descrivere l’ilarità di una persona o di un atteggiamento. Logico è chiedersi come sia stato possibile. Infine, mi permetto un’ultima riflessione. Nel tumulto di urla e grida causato dall’entrata in scena delle tre ragazze, il pubblico ha reagito ridendo fragorosamente, sia alla scena, grottesca, che alle battute, volutamente, anch’esse, grottesche. È quasi sembrato infatti che gli attori, tutti, si fossero riuniti in un unico personaggio mitologico, Circe, riuscendo a trasformare il pubblico in animali. La bevanda magica altro non è che lo spettacolo. A oggi, di Ulisse, non ci sono ancora tracce, ma, in fin dei conti, è così difficile usare il moly?

Pin It