FIRENZE. Qualche scheletro, aprendo gli armadi, lo si trova sempre. Si può fingere di non vederne, spalancando le ante, o si può addirittura preferire di lasciarli chiusi, i nascondigli e continuare a vivere, come se nulla fosse, come se nulla fosse stato. Però bisogna anche essere pronti, qualora dovesse accadere, a confrontarci con le nostre colpe, i nostri trascorsi, i nostri delitti. Festen è l’anello di congiunzione tra il crimine e la sua scoperta, che non arriva dopo una lunga e serrata indagine, ma in un giorno qualsiasi, anzi, in un dì di festa e solo perché qualcuno decide di non volersi più tenere dentro quel mostro che gli arrovella e arroventa la vita. E il tormento personale si trasforma, in un attimo, in una crisi totale, generazionale, familiare. Per correttezza e delicatezza riservata, doverosamente, a Thomas Vinterberg il padre di questa denuncia, che ha già avuto risonanza planetaria al cinema, Marco Lorenzi, il regista della rappresentazione teatrale (al Cantiere Florida a Firenze) ha voluto, con un artificio degno di stupore e gradevolezza, trasportare il cast cinematografico sul palcoscenico, imponendo ai nove (Danilo Nigrelli, Irene Ivaldi, Roberta Calia, Yuri D'Agostino, Elio D'Alessandro, Roberta Lanave, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Angelo Tronca) protagonisti (ottimo affiatamento, bel groove, come si dice ai concerti, ognuno perfettamente incastonato nel proprio ruolo subalterno alla vicenda, in una competizione di protagonismo degna dei migliori cast) il doppio ruolo teatrale/cinematografico.
Ma sotto la lente di ingrandimento, nell’occhio del ciclone di una denuncia che, seppur tardiva, andrebbe comunque ancora fatta, non c’è soltanto la nobile e aristocratica famiglia danese Kingelfeld, ma l’intera società, quella che preferisce voltarsi dall’altra parte, o fingere di non vedere, per evitare di affrontare la realtà in tutta la sua efferata crudeltà. E l'accusatore di turno, abilmente traumatizzato da una vita sottosopra, screditato da se stesso e dal non essere riuscito a sopportare un peso tanto doloroso, non è certo il figlio che ha deciso di scappare lontano pur di non dover diventare, nel tempo e con il silenzio, complice. Sul banco degli imputati, insomma, non c’è soltanto lo stimato facoltoso imprenditore patriarca colto, nel giorno del suo sessantesimo compleanno, in mnemonica fragranza di violenza sessuale nei confronti di due suoi quattro figli, ma la connivenza, tacita e infastidita, della moglie, degli altri figli, della servitù e di una società intera che in un modo o in un altro è legata a doppio filo con il signor Kingelfeld, una società rappresentata dalla moglie e dalle sue frequentazioni che non ha visto, che ha finto di non vedere e che quando ne ha avuto il sentore, se non la spudorata certezza, si è ben guardata dal denunciare. L’effetto collaterale e politico della pellicola, che si è presa i suoi giusti tributi a Cannes e che ha avuto lo stesso identico impatto nella sua trasposizione teatrale, è quell’inquietitudine morale che eleva l’arte alla sua missione prima e ultima. Uno spettacolo importante, che prende spunto da una tristissima novella per bambini (abbandonati: Hansel e Gretel, dei fratelli Grimm) e che si immerge, in un piacevole, terrificante gioco di sovraimpressioni, nella lussuosa villa di famiglia, dove per anni, nel più totale silenzio e, ovattato dal lusso e dalla riservatezza, lontano da qualsiasi sguardo indiscreto, si è praticato l’abominio dell’abuso, della violenza, della sopraffazione, dell’intimidazione. Una scioccante rivelazione di mostruosità domestica, che riflette, in una sconvolgente e tragica miniatura, il silenzio degli spettatori della barbarie. Il Teatro, nella sua forma più nobile, aulica e perché no, spettacolare, è anche e soprattutto questo: istigazione, che non sfocia in azioni immediate solo perché, al termine della rappresentazione, ci si alza tutti in piedi ad applaudire. I battimani che inondano i protagonisti di (in)coraggi(amento) e che, automaticamente, impongono agli spettatori un diverso senso civico, morale, politico. Come è successo al Florida. E non serve che nell'aria aleggi il ricordo, l'odore e l'ombra, ingombrante, della vittima di turno, indotta al suicidio. Si può e si deve essere presenti, anche senza i suggerimenti teatrali.