PISTOIA. La notoria scaltrezza teatrale di Roberto Valerio, mago dei tempi di distribuzione del serio e del faceto, dell’evasione e della concentrazione, di come condurre il pubblico con redini elastiche fino al tramonto senza soluzione di continuità, si è presa una pausa e ha messo sul piatto della propria biografia un’opera di altissima risoluzione ottica, chiedendo ai protagonisti assoldati alla bisogna uno sforzo superiore. Il risultato, Zio Vanja, opera plurirappresentata e pluridecantata del drammaturgo russo Anton Cechov, è oggettivamente superlativo. Certo, è un testo che consente, anzi, obbliga, gli ardimentosi a cimentarsi in improbabili rielaborazioni, vista la sedimentazione di cui gode ormai di oltre un secolo, ma l’operazione del regista romano è veramente impeccabile. Dalla scelta dei protagonisti, uno migliore dell’altro, a quella della scenografia per il riadattamento, per quattro atti che si consumano, tutti, all’interno del salone della tenuta e che sembrano inseguire l’immobilismo delle singole personalità, dilaniate dalla necessità di dare un senso alle proprie esistenze senza però riuscire, ognuno all’interno del proprio microcosmo, a fare qualcosa, a muoversi, ad agire. Di Zio Vanja non vi diciamo nulla per il rispetto che si deve nei confronti di lettori alfabetizzati.

Ma del cast scelto da Roberto Valerio, invece, attentissimo a incastonare personalità dominanti in abiti fati apposta, morbido ed elegante, sincero e tagliente, pudico e irriverente, ci preme raccontarvi, per filo e per segno, le virtù di ognuno di loro. Con la precedenza, obbligatoria, a Sonja (Mimosa Campironi), una cantautrice prestata al Teatro che non si consente il lusso, nemmeno per un istante, di abbassare la guardia della propria tenacia o di provare a sminuire il proprio personale fallimento, esistenziale e sentimentale, salvo che affidarsi, alla resa dei conti, alla misericordia e al riconoscimento celeste. E il dottor Astrov (Pietro Bontempo), idealista e ambientalista alcolizzato, dedito anima e corpo alla salvezza di anime (im)pure, fino all’incontro, fatale con Elena, che manderà in subbuglio la sua esistenza protetta fino a quel momento dagli affetti e dalle esposizioni relazionali da questa ossessiva abnegazione al lavoro. Su Giuseppe Cederna e Vanessa Gravina, che non aspettano certo i nostri commenti per fortificare le proprie convinzioni di essere Attori, ci allineiamo, con oggettivo dovere e un minimo di pudore a chi ne tesse le lodi da sempre; è giusto così, perché il fallimentare e frustrato Vanja, dilaniato dallo sfruttamento familiare e lacerato da ricordi che avrebbero meritato miglior epilogo esistenziale, e la sensualissima e conturbante Elena, che annega la propria intelligenza, bellezza e fascino sull’altare di un destino immaginato diverso, miglior rappresentazione non avrebbero potuto conoscere. Così come il vecchio, scorbutico, dispotico e tutto sommato impalpabile professore Serebrijacov (Alberto Mancioppi), così morbosamente affezionato alla propria statura e alle sue inutili dispense, che riescono a fare breccia solo sulla vecchia madre, Marja (Elisabetta Piccolomini), unicamente preoccupata che quel claudicante equilibrio familiare riesca, tra sotterfugi e ipocrisie, a mantenere almeno la facciata e il prestigio di una dignitosa sopravvivenza economica e il tuttofare, servilistico, di Telegin (Massimo Grigò), eco ridondante di altrui dichiarazioni, riparatore inutile e commovente di situazioni ormai incancrenite, corpo, senza anima, che facilita l’inesorabile caduta nell’abisso. A questo spettacolo (aggiungiamo una piccola considerazione, ma non date a questa molta importanza), prodotto dall’Associazione teatrale pistoiese con il sostegno del Ministero della Cultura e Regione Toscana (oggi, siamo al Manzoni, domenica 24 aprile, si replica alle 16), non una folla oceanica; i molti posti vuoti sono un dolore inimmaginabile, soprattutto per i protagonisti quando si accendono le luci in sala, ma ancora non sufficienti per un decalogo che andrebbe perentoriamente rispettato, pena la cacciata, seduta stante, dei contraffattori: qualcuno non ha ancora imparato a spegnere il cellulare durante le rappresentazioni; per carità di dio, restate a casa, non se ne può più di dovervi sopportare.

Pin It